lunedì 29 aprile 2013

Cecile Kyenge: il primo ministro di colore nella storia della Repubblica



Quando nel pomeriggio di sabato 27 aprile Enrico Letta ha annunciato la squadra di governo e ha pronunciato il nome di Cecile Kyenge in molti si sono guardati in faccia, un po' sorpresi. Sconosciuta ai più, Cecile Kyenge è una parlamentare del Pd eletta in Emilia Romagna, della Repubblica democratica del Congo, ma ora cittadina italiana. Nata nel 1964 è sposata e madre di due figlie e sarà il prossimo ministro dell'Integrazione e il primo ministro di colore della Repubblica italiana. La Kyenge è il primo ministro di colore nella storia della Repubblica italiana. Il "valore aggiunto" - Sposata e madre due figli, la neo ministra è molto attiva nelle tematiche legate alle integrazione e all'immigrazione. In un'intervista rilasciata al sito del Pd durante la campagna elettorale si era presentata così: "La mia candidatura vuole essere rappresentativa delle voci dei nuovi cittadini migranti, ma anche delle istanze dei cittadini italiani, perché credo che il meticciato possa essere un valore aggiunto nella cultura italiana". 
Con gli immigrati - Lunedì 15 aprile la Cecile Kyenge incontrò il prefetto di Modena, Benedetto Basile: oggetto del colloquio  è stata l'interrogazione parlamentare che la deputata intende presentare a breve in Parlamento incentrata sull’ennesima rivolta degli internati al Cie di Modena, avvenuta domenica 7 aprile. Nell'interrogazione la Kyenge vuole ottenere spiegazioni sull'episodio da parte degli uffici della Prefettura, e intende capire perché gli agenti di Polizia rifiutino di raccontare quanto accaduto all'interno della struttura modenese.
L'associazione - La Kyenge è anche portavoce di "Primo Marzo",  un progetto di partecipazione dal basso impegnato nella lotta al razzismo e nella difesa dei diritti umani, formato da una rete di comitati territoriali nato nel 2009. L’iniziativa riunisce italiani, migranti, seconde generazioni: tutti accomunati dal rifiuto del razzismo e della cultura dell’esclusione. L’associazione tra l’altro chiede l'abrogazione della Bossi-Fini e, in particolare, del nesso tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno; rivendica l'applicazione e l’estensione dell’articolo 18 del testo unico sull'immigrazione come tutela per tutti i lavoratori che denunceranno di essere stati costretti all’irregolarità del lavoro. 
Reato di clandestinità - Tra le altre istanze cavalcate dall'associazione "Primo Maggio", l’abrogazione del reato di clandestinità e del pacchetto sicurezza; l’abolizione del permesso di soggiorno a punti; la chiusura dei CIE; una regolarizzazione che sia una soluzione reale e rispettosa dei diritti umani e della dignità delle persone; il passaggio dal concetto di 'ius sanguinis' a quello di 'ius solì per il riconoscimento della cittadinanza e una legge che garantisca l’esercizio della piena cittadinanza a chi nasce e cresce in Italia; una legge organica e adeguata per la tutela dei rifugiati e dei richiedenti asilo.
(Libero 270413)

martedì 23 aprile 2013

25 aprile: bandiera veneta sui balconi

Da sempre nei territori della Serenissima Repubblica Veneta il 25 aprile si onora e si festeggia San Marco, emblema religioso e politico della Repubblica Veneta fino al 1797, bandiera e simbolo del popolo veneto. E non a caso uno dei primi provvedimenti degli invasori francesi fu proprio quello di sospendere la festa di San Marco e di condannare a morte chi osasse gridare “Viva San Marco!”; ma nonostante l’accanimento e la brutalità di Napoleone e dei suoi collaborazionisti italiani, ancor oggi nell’intero Commonwealth della Serenissima decine e decine sono le iniziative per ricordare e festeggiare San Marco: dal festoso ritrovo in piazza San Marco a Venezia, alla rogazione di Piemonte d’Istria.
E’ fondamentale riappropriarci della nostra identità, delle nostre feste, riscoprire l’orgoglio di sentirsi veneti e di sventolare gioiosamente la nostra bandiera, di esporla dalle nostre case: è l’unico modo per sconfiggere, o perlomeno attenuare gli effetti perversi di quella globalizzazione che sta mortificando culture, civiltà, lingue, costumi, identità diverse ma proprio per questo degne di essere rispettate, tutelate e valorizzate. Il tutto in un’ottica europea affinché l’Europa dei banchieri diventi l’Europa dei popoli e delle regioni; un’Europa in grado si svolgere quel ruolo che la storia le assegna, ma che sventuratamente non riesce a interpretare. Un’ Europa che veda protagonisti bavaresi e catalani, scozzesi e tirolesi, bretoni e sardi, ma anche noi veneti. Viva San Marco!  

lunedì 22 aprile 2013

Se questo è il Pd… Sfogo di chi vorrebbe (ancora) far politica

Lettera di giovane dirigente lombardo, allucinato dall'autismo del partito. Tra l'illusione della superiorità morale e il delirio web-assemblearistico, cercasi riformismo a sinistra, ora o mai più.
Quanto accaduto in questi giorni merita alcune riflessioni e, credo, un giudizio disincantato, e per ciò stesso provocatorio, nei confronti di coloro che credono di aver firmato una pagina importante della politica italiana. Ho sentito dire cose di fronte alle quali avrei preferito essere sordo. Ma non lo sono, per quanto apparentemente affetto dall’autismo della classe dirigente democratica: ho sentito dire che, in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, la convergenza dei voti di Lega e PdL sarebbe stata una deriva consociativa, addirittura inciucista, e che avrebbe inaugurato un Governissimo. L’ho sentito dire sia da coloro che, sul piano politico, continuano a guardare al centrodestra come al Nemico Assoluto contro cui definire un’identità incardinata sull’illusione di una diversità morale. Da coloro, cioè, che bloccano da trent’anni una compiuta evoluzione socialdemocratica della sinistra italiana, una sua piena “secolarizzazione” e una sua definitiva sortita dal settarismo. Da coloro, per intenderci, che guardano a Grillo non tanto per sfidarlo sul suo presunto programma, quanto perché in qualche modo affascinati dal suo becero assemblearismo antiparlamentare. Ma l’ho sentito dire anche da coloro che, durante e dopo le primarie, hanno sempre detto a Bersani che i voti di Lega e Pdl non sono da rifiutare, ma da intercettare. Costoro, attratti dall’ipotesi, del tutto inverificata, di un tempestivo scioglimento delle Camere, hanno bloccato ogni candidatura di convergenza e favorito quella di Romano Prodi (autorevolissima ma divisiva in Parlamento). E’ così che i franchi tiratori del Pd hanno rinunciato all’elezione di un Presidente di matrice democratica con i voti degli avversari di centrodestra, per poi guardare all’ipotesi di un Presidente espresso dai grillini, per poi tentare l’elezione di un Presidente candidato dai democratici ma sgradito al centrodestra, il che ha prodotto il prolungamento dello Stato d’eccezione in cui si trova il Paese, fortunatamente nelle mani di Napolitano
Si è così piombati nel giro di due giorni dalla prospettiva di un Governo del Presidente, già percepito come contaminante per le nostre anime belle, alla certezza di un Governissimo benedetto dal Presidente. Le altissime qualità politico-istituzionali e la caratura internazionale di Napolitano rappresentano la più forte garanzia di tenuta del nostro fragile sistema politico in una stagione rischiosa per lo status geopolitico e geoeconomico del Paese. Ma la necessità di una sua rielezione è sintomo di un’immaturità profonda del nostro quadro partitico e della sua incapacità di sintetizzare in processi decisionali lineari i più che legittimi, ma cangianti, desiderata del Paese.
 Questi due giorni hanno fatto crollare il concetto di rappresentanza parlamentare e di delega politica. Molti eletti del Partito democratico non si sono cioè concessi alcun margine di trattativa, di mediazione e di accordo parlamentare secondo la libertà di mandato costituzionalmente prescritta, ma hanno preferito seguire gli impulsi del momento, comprese le discussioni on-line. A molti amici, che su questo punto mi contestano, richiamandomi al fatto che rete e realtà sono la stessa cosa, rispondo: per prima cosa, il web è un importante squarcio della realtà, ma non è proprio tutta la realtà; in secondo luogo, dato che un partito è una “macchina utile a prendere decisioni” e il Parlamento è il luogo deputato ai provvedimenti utili a migliorare la realtà, anziché puramente a registrarla, bisogna ascoltare gli stimoli esterni, interloquirvi, ma poi concedersi quell’autonomia negoziale indispensabile a fare una sintesi politica praticabile. Tutto ciò non significa scavare un fossato tra elettorato e classe dirigente. Significa piuttosto che la democrazia rappresentativa, a differenza della democrazia diretta, riconosce al delegato uno spazio di autonomia in cui, per tempo a disposizione, professionalità e visione d’insieme, può prendere decisioni, nell’interesse del corpo elettorale, che il singolo elettore non si può incaricare di assumere. Il webassemblearismo, provocato anche da un’eccessiva autoreferenzialità delle classi dirigenti, rischia tuttavia di annullare le procedure decisionali di un partito e di contrarre i margini di trattativa con alleati e avversari che costituiscono il tratto costitutivo della politica, soprattutto in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica.
Stefano Binda (L'Intraprendente)

sabato 20 aprile 2013

Perché per il Nord Rodotà proprio non s’aveva da fare

Frughi in Internet e trovi le letture della tragicommedia-Quirinale più disparate. E ti accorgi che accade quel che non accadeva da un po’: il popolo della rete si scaglia contro la sinistra, dimenticando di insultare Berlusconi, da almeno 48 ore. Questa di per sé è una notizia, come il fatto che buona parte degli affezionati del clic facile avrebbe gradito chiunque come Capo dello Stato, pur di non lasciare margini di manovra al Cavaliere. L’ultima puntata di una saga drammatica è quella del commento avverso, seppur moderato, a Stefano Rodotà: “Uno statista del suo livello avrebbe dovuto ritirarsi e dire al M5S di convergere su Romani Prodi, sapendo che Prodi era in bilico, e che la caduta di Prodi avrebbe consegnato il Paese a Berlusconi. Perché uno statista si comporta da statista, non da candidato di bandiera”. Si può condividere o meno quest’analisi. Noi non la condividiamo neanche un po’. E non perché nel dettaglio non fotografi una realtà, ma perché l’anomalia della candidatura-Rodotà risiede da tutt’altra parte, risiede in Rodotà, nella sua antropologia. Deputato nel ’79 come indipendente nel Partito Comunista, approda alla commissione Affari costituzionali. Di nuovo deputato nell’83, per Sinistra indipendente, di nuovo nella stessa commissione, prendendo parte alla prima Bicamerale. Nell”89 ministro della Giustizia, Pci, Occhetto, governo ombra. E ancora: primo presidente del Partito democratico della sinistra, che lo riporta, nel ’92, alla Camera e a una nuova commissione Bicamerale. In Europa, per non farci mancare niente guardiamo anche oltre confine, bazzica dall”83, come parlamentare europeo dall”89, senza mai smettere di frequentarla, la Signora delle nazioni, anzi. 
La storia che porta sulle spalle ci allontana di parecchio dal suo profilo. Lo fa perché siamo certamente più vicini a chi riconosce l’urgenza racchiusa nelle istanze di un Nord da sempre poco e male rappresentato. E perché lo spirito liberale raramente può coincidere con i figli, anche nobili, del Partito Comunista. Lo avremmo anche accettato, lo avremmo rispettato come Presidente, ma è innegabile: non sarebbe stato esattamente il presidente di tutti, Rodotà. Ma questo importa poco adesso, Napolitano certo non è un destrorso eppure ha fatto il suo e ci sta tenendo in piedi, malamente ma in piedi. Il punto è che Stefano Rodotà non può essere presidente, non avrebbe dovuto accettare la candidatura, avrebbe dovuto ritirarsi, per onorare la propria storia, la Politica. E non ci sono scuse, l’hanno chiamato in gioco i grillini e se tutti gli avversari politici vanno guardati in faccia e rispettati in quanto detentori della fiducia (in questo caso dell’ira, della frustrazione e spesso dell’ignoranza) degli elettori, lo è anche che chi sputa sull’arte politica, chi inneggia allo sfascio di ogni regola degna di una democrazia, non può essere colui cui strizzi l’occhio non appena, per sbaglio, gli vai giù. Stefano Rodotà avrebbe dovuto ritirarsi perché è uno di quegli uomini che i Palazzi li ha conosciuti a fondo, che la strategia del politico vero, quello conscio che a ogni azione corrisponde una reazione, la mastica come consuetudine. Stefano Rodotà avrebbe dovuto ritirarsi perché è abbastanza alto e preparato e politico da sapere che oggi l’Italia ha bisogno disperatamente di politica, e ammettere che Beppe Grillo e il circo terrorizzato dai micro chip che lo accompagna siano interlocutori veri, affidabili, da cui farsi candidare, è ammettere che quella storia non vale nulla. Il Nord, l’economia, la nazione hanno fame di politica, di riforme, soluzioni e un sacco di crescita, non di decrescita. Hanno bisogno di due presidenti e che i pagliacci vengano rispettati ma archiviati a tali. Il Nord si sta suicidando e Rodotà è troppo per non saperlo, per non sapere che non ci si può fare armare dall’esercito sbagliato, ché i simboli hanno un senso. E lui questo lo sa più di quanto noi sapremo mai. Per questo e mille altri motivi avrebbe dovuto ritirarsi e no, non può essere il nostro presidente.
Federica Dato (L'Intraprendente)

giovedì 18 aprile 2013

Crisi e suicidi, Bisinella e Marcolin della Lega: subito Governo e riforme urgenti



Patrizia Bisinella e Marco Marcolin, deputati Lega Nord -"I dati parlano chiaro, marzo 2013 ha registrato un aumento del 40% dei suicidi per motivi economici. Trentadue le persone che dall'inizio dell'anno si sono tolte la vita, cinque solo nella giornata di ieri. Sembra un bollettino di guerra. Invece è la conta dei lavoratori morti suicidi a causa della perdita del lavoro, della mancanza di prospettive, di debiti che strangolano i bilanci familiari.
In Veneto, la nostra terra, solo ieri un muratore di Treviso si è tolto la vita dopo aver vissuto un lungo periodo di difficoltà. Mentre nel vicentino si è impiccato un operaio 33enne padre di due figli.". 
Lo dichiarano i deputati trevigiani della Lega Nord, Patrizia Bisinella e Marco Marcolin manifestando la loro vicinanza alle famiglie colpite da queste tragedie. 
"Il dramma di queste famiglie deve essere una responsabilità ulteriore per la Politica che deve ritrovare il senso della realtà e dare al Paese un Governo che adotti misure urgenti - spiegano gli esponenti del Carroccio - manca il lavoro, mancano le commesse, manca l'ossigeno che è la concessione di credito da parte delle banche e si deve alleviare l'ormai insostenibile peso della burocrazia. E' svilente rappresentare una classe politica allo sbando che anche oggi ha dimostrato irresponsabilità di fronte al Paese e alle urgenze dei cittadini". 
"Lo diciamo da tempo, le prospettive sono poche, con la realizzazione della Macroregione e l'autonomia finanziaria derivante dal trattenimento di almeno il 75% delle tasse sul territorio, si garantirebbe al Veneto lo slancio sociale ed economico necessario per tornare ad essere una delle economie trainanti d'Europa. Basta tentennamenti - concludono Bisinella e Marcolin - diamo subito risposte ai lavoratori che si sentono vessati e abbandonati dallo stato".

Di Redazione VicenzaPiù

martedì 16 aprile 2013

Perché il 1° maggio deve (anche) ricordare i suicidi di Stato



Non solo suicidi di Stato come «crimini contro l’umanità» ma anche come vere e proprie “morti bianche” degne di essere commemorate nel giorno dedicato alla Festa del lavoro. È quanto chiede Confedercontribuenti attraverso le voci del suo presidente Carmelo Finocchiaro e della direttrice dell’Emilia Romagna Simona Pedrazzini.  
Secondo quanto scrive Finocchiaro infatti «oggi più che mai serve un patto fra lavoratori e imprenditori per fermare il declino del nostro Paese. Solo l’unità fra chi lavora e produce potrà farci ritornare ad essere un Paese che cresce». Tutto verissimo. Peccato che i sindacati, troppo spesso, ragionino esattamente all’inverso: gli imprenditori sono sfruttatori da arginare, nemici da combattere per redistribuire i soldi ai lavoratori. Per questo temiamo fortemente, per usare un’espressione alquanto eufemistica, che la loro richiesta non verrà mai accettata dagli organizzatori del Primo maggio. Eppure, prosegue con grande lucidità Finocchiaro, solo la sopracitata unità potrebbe «rafforzare la battaglia per una seria riforma fiscale ormai non rinviabile, per lo sbocco del credito bancario a imprese e famiglie, per una nuova solidarietà che sostenga sempre di piu’ gli italiani, ormai rassegnati al rischio di una povertà dilagante». Insomma tutta quella serie di interventi in grado di far ripartire un’economia depressa lasciando la maggior parte dei soldi a chi li produce (le imprese, intese nella loro sinergia fra proprietari e dipendenti) che, evidentemente, sa anche meglio come spenderli e reinvestirli, a tutto vantaggio dell’economia reale.
L’obiettivo finale, per Confedercontribuenti, è dar vita a «un primo Maggio che di fronte alla crisi del lavoro, ridiventi un momento per farsi sentire da chi dovrebbe governarci e dopo 50 giorni non riesce ancora a trovare una soluzione praticabile». Insomma un peana del mondo concreto e produttivo alla balcanizzazione della politica e al suo rinchiudersi in una torre d’avorio. Caratteristiche spesso proprie degli stessi sindacati che, nei decenni, hanno dato vita a strutture di potere incancrenito e politicizzato che puntano a tutto tranne che alla semplice salvaguardia dei loro singoli iscritti. Basti guardare a quanto sta succedendo nel Comune di Milano dove la Cgil risulta l’unico sindacato a non manifestare contro le ristrutturazioni di Pisapia: pur di non fargli torto si rinuncia a una battaglia. 
Anche se non sarà accolta la battaglia di Confedercontribuenti è sacrosanta: non solo perché pone al centro dell’attenzione un tema importante come i suicidi per ragioni economiche ma, soprattutto, perché va nella direzione di armonizzare due mondi erroneamente concepiti come distinti e distanti: quelli dei lavoratori e delle imprese.
Matteo Borghi (L'Intraprendente)