Frughi in Internet e trovi le letture della tragicommedia-Quirinale
più disparate. E ti accorgi che accade quel che non accadeva da un po’:
il popolo della rete si scaglia contro la sinistra, dimenticando di
insultare Berlusconi, da almeno 48 ore. Questa di per sé è una notizia,
come il fatto che buona parte degli affezionati del clic facile avrebbe
gradito chiunque come Capo dello Stato, pur di non lasciare margini di
manovra al Cavaliere. L’ultima puntata di una saga drammatica è quella
del commento avverso, seppur moderato, a Stefano Rodotà: “Uno statista del suo livello avrebbe dovuto ritirarsi e dire al M5S di convergere su Romani Prodi,
sapendo che Prodi era in bilico, e che la caduta di Prodi avrebbe
consegnato il Paese a Berlusconi. Perché uno statista si comporta da
statista, non da candidato di bandiera”. Si può condividere o meno
quest’analisi. Noi non la condividiamo neanche un po’. E non perché nel
dettaglio non fotografi una realtà, ma perché l’anomalia della
candidatura-Rodotà risiede da tutt’altra parte, risiede in Rodotà, nella
sua antropologia. Deputato nel ’79 come indipendente nel Partito Comunista, approda alla commissione Affari costituzionali. Di nuovo deputato nell’83, per Sinistra indipendente, di nuovo nella stessa commissione, prendendo parte alla prima Bicamerale. Nell”89 ministro della Giustizia, Pci, Occhetto, governo ombra. E ancora: primo presidente del Partito democratico della sinistra,
che lo riporta, nel ’92, alla Camera e a una nuova commissione
Bicamerale. In Europa, per non farci mancare niente guardiamo anche
oltre confine, bazzica dall”83, come parlamentare europeo dall”89, senza mai smettere di frequentarla, la Signora delle nazioni, anzi.
La storia che porta sulle spalle ci allontana di parecchio dal suo
profilo. Lo fa perché siamo certamente più vicini a chi riconosce l’urgenza racchiusa nelle istanze di un Nord
da sempre poco e male rappresentato. E perché lo spirito liberale
raramente può coincidere con i figli, anche nobili, del Partito
Comunista. Lo avremmo anche accettato, lo avremmo rispettato come
Presidente, ma è innegabile: non sarebbe stato esattamente il presidente
di tutti, Rodotà. Ma questo importa poco adesso, Napolitano
certo non è un destrorso eppure ha fatto il suo e ci sta tenendo in
piedi, malamente ma in piedi. Il punto è che Stefano Rodotà non può
essere presidente, non avrebbe dovuto accettare la candidatura, avrebbe
dovuto ritirarsi, per onorare la propria storia, la Politica. E non ci
sono scuse, l’hanno chiamato in gioco i grillini e se
tutti gli avversari politici vanno guardati in faccia e rispettati in
quanto detentori della fiducia (in questo caso dell’ira, della
frustrazione e spesso dell’ignoranza) degli elettori, lo è anche che chi sputa sull’arte politica, chi inneggia allo sfascio di ogni regola degna di una democrazia,
non può essere colui cui strizzi l’occhio non appena, per sbaglio, gli
vai giù. Stefano Rodotà avrebbe dovuto ritirarsi perché è uno di quegli
uomini che i Palazzi li ha conosciuti a fondo, che la strategia del politico
vero, quello conscio che a ogni azione corrisponde una reazione, la
mastica come consuetudine. Stefano Rodotà avrebbe dovuto ritirarsi
perché è abbastanza alto e preparato e politico da sapere che oggi l’Italia ha bisogno disperatamente di politica, e ammettere che Beppe Grillo
e il circo terrorizzato dai micro chip che lo accompagna siano
interlocutori veri, affidabili, da cui farsi candidare, è ammettere che
quella storia non vale nulla. Il Nord, l’economia, la nazione hanno fame
di politica, di riforme, soluzioni e un sacco di crescita, non di
decrescita. Hanno bisogno di due presidenti e che i pagliacci vengano rispettati ma archiviati a tali. Il Nord si sta suicidando
e Rodotà è troppo per non saperlo, per non sapere che non ci si può
fare armare dall’esercito sbagliato, ché i simboli hanno un senso. E lui
questo lo sa più di quanto noi sapremo mai. Per questo e mille altri
motivi avrebbe dovuto ritirarsi e no, non può essere il nostro presidente.
Federica Dato (L'Intraprendente)
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