Negli ultimi
5 mesi han chiuso in Italia 5.334 imprese di cui ben 1.211 in Lombardia e 454
in Veneto. Un bilancio disastroso che dimostra quel poco che lo Stato fa per
incentivare la crescita. E quel tanto che fa per bloccarla.
Mentre a Montecitorio discutono di come salvare l’Imu
(0,4% del bilancio statale) il Paese va verso lo sfascio. I dati
di Unioncamere sono a dir poco sconvolgenti e deprimenti: nel Belpaese –
si fa per dire – muoiono tre imprese ogni due ore, ovvero 35 al giorno,
5.334 nei primi cinque mesi del 2013. Un bilancio impressionante che vede i fallimenti
in salita del 5,6% rispetto al già horribilis 2012. Una situazione in
cui, a soffrire di più, è il cuore produttivo del Nord. In Lombardia
sono fallite 1.211 aziende, poco meno di un quarto del totale, e a Milano
525, poco meno del 10%; in Veneto ne sono morte 454.
Il motivo del decesso è sempre lo stesso: un mix
letale di tasse, burocrazia e stretta sul credito.
Più di ogni altra cosa mancano soldi. Ho un amico che possiede una piccola
impresa a Milano, non sana ma sanissima, con 300mila euro di bilancio in
attivo. Eppure – fra i fornitori che non pagano e lo Stato che chiede il
pagamento puntuale delle imposte – deve fronteggiare, quotidianamente, la crisi
di liquidità. Per non parlare di chi ha debiti con la pubblica
amministrazione che, salvo rare eccezioni (fra cui Regione Lombardia),
vengono saldati con tempi a dir poco biblici. Però poi le tasse si devono
pagare comunque puntuali (il sistema della compensazione vale solo nei
rapporti fra privati, non in quello fra lo Stato-padrone e il
cittadino-suddito) salvo non incorrere in multe, sanzioni, confische: se non si
hanno i soldi si può chiedere un prestito, a patto che si trovi una banca
ancora disposta a concederlo. Una volta mi è capitato di sentire la storia di
un imprenditore con un problema simile: una pubblica amministrazione gli doveva
da tempo più di tre milioni per una strada e lui, senza più soldi, era
costretto a chiudere licenziando gli operai. Aveva pagato le tasse fino
all’ultimo facendo causa all’amministrazione inadempiente per ricevere i tre
milioni che gli spettavano. Non so se ci sia riuscito o se, coi tempi della
giustizia italica, sia ancora a processo. Ricordo però, nitidamente, la
promessa che fece a se stesso: non avrebbe mai più investito, per
alcuna ragione, un solo euro in Italia.
Lo stesso succede nel campo dell’edilizia, uno dei settori più colpiti dalla
vessazione statale. I costruttori devono pagare l’Imu sulle case
invendute: un’assurdità, è come se la Fiat dovesse pagare il bollo e
l’assicurazione sulle auto parcheggiate a Mirafiori. Eppure, per soddisfare
l’implacabile sete del Leviatano, accade anche questo. Riuniti oggi a Piazza
Affari per la “Giornata delle vessazioni” (sull’onda della
“Giornata della collera” dello scorso febbraio) gli industriali hanno lanciato
il proprio grido di dolore. Il presidente di Confindustria Giorgio
Squinzi ha detto: «Le vessazioni sono ciò che ci impedisce di ripartire.
Noi non abbiamo avuto nessuna bolla immobiliare come Usa e Spagna. Se non siamo
riusciti a ripartire è a causa delle complicazioni burocratiche e
normative presenti nel nostro Paese». I risultati si vedono: dall’inizio
della crisi nell’edilizia si sono persi 446mila posti di lavoro, 690mila se si
considerano i settori collegati alle costruzioni. Dal 2008 ad oggi le ore di
cassa integrazione sono più che triplicate, passando da 40 a 140milioni. Una
situazione che, solo ieri, ha fatto un’altra vittima: un muratore
di 26 anni che – disoccupato da molto, troppo tempo – si è tolto la vita. Non
ha retto la frustrazione di non trovare, nonostante la buona volontà, un posto
di lavoro e la costante mancanza di denaro per una vita dignitosa. Lo zio ha
parlato, a ragione, di “suicidio di Stato“:
uno Stato che, in mezzo alle macerie, si comporta come «un bambino. Con un canale
alimentare con un grande appetito da una parte e nessun senso di responsabilità
dall’altra»
di Matteo Borghi (L'Intraprendente)
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