La
procura di Torino accusa di attentato terroristico a fini eversivi i No Tav che
si son resi protagonisti di due attacchi alle forze dell'ordine con tanto di
pietre, bombe carta e petardi. È proprio la definizione giusta.
Qualcuno si è perfino azzardato a definirli “partigiani”, ora finalmente li sentiamo
chiamare col loro vero nome: terroristi. Attentato per finalità
terroristiche o di eversione: è questa l’accusa che la procura di Torino
ha rivolto agli esponenti No Tav che, lo scorso 10 luglio, si sono resi responsabili
di un pesante attacco alle forze dell’ordine. In quell’occasione
una ventina di «terroristi» si era avvicinata, a volto coperto, alle reti
lanciando sassi, bombe carta e petardi ad altezza uomo e
costringendo le forze dell’ordine a intervenire per respingerli. Modalità di
attacco che – secondo i magistrati torinesi – configurerebbero il reato di
attentato terroristico condotto a fini eversivi. Le violenze sono poi
continuate nella notte fra il 19 e il 20 luglio quando è andata in scena una
vera e propria guerriglia: risultato 15 agenti contusi o feriti. Come riporta
il quotidiano Lo Spiffero: «Durante le operazioni di bonifica dei boschi
successive ai disordini sono stati trovati residui di molotov, grossi petardi,
razzi da segnalazione, bulloni, fionde, mazze, un’ascia, maschere antigas,
cappucci, caschi, sacchetti di pietre, anche all’interno di zaini, scudi
artigianali, abbandonati dagli attivisti durante la fuga». Non proprio oggetti
innocui.
In questo caso non si tratta di essere garantisti o
meno: le azioni violente compiute sono sotto gli occhi di tutti. Eppure ci
tocca quotidianamente vedere – nell’Italia della fatwa contro Berlusconi – un buonismo diffuso
nei confronti dei No Tav. In fondo, dice qualcuno, sono dei
ragazzi giovani che combattono per degli ideali, almeno loro ne hanno mantenuto
qualcuno nella generale perdita di valori della società occidentale. È,
esattamente, lo stesso ragionamento che si sentiva ai tempi delle Br
quando si parlava, incessantemente, di «compagni che sbagliano» ma che, se non
altro, combattevano contro uno stato para-fascista (cosa avesse di fascista
l’ingovernabile Italia primorepubblicana lo sapevano soltanto loro). Le stesse
Br residuati bellici della storia che, di recente, hanno minacciato
il senatore democratico Stefano Esposito, da sempre difensore
dell’alta velocità. Lungi da noi dire che tutto il movimento No Tav sia violento, così come non lo erano – negli anni ’70 – tutti gli aderenti a
movimenti di estrema sinistra. Quello che conta è la capacità di chi accetta la
dialettica politica di isolare, condannare e stigmatizzare chi compie azioni
non democratiche: cosa che, finora, è avvenuta in maniera nulla o insufficiente
all’interno del movimento degli oppositori della Tav. Bisognerebbe, invece,
avere il coraggio di dire: «Quelli non sono dei nostri, non ci rappresentano».
E invece no, spesso si preferisce difenderli
anche nelle loro follie più astruse. Basti leggere quanto riporta il
commento del blog Maverick a seguito degli scontri del 20 luglio: «i
soliti finti “feriti” tra le forze dell’ordine che, vista la cronaca dei fatti,
non possono certo essere stati colpiti dai dimostranti, tutt’al più si sono
incespicati nel bosco e useranno le prognosi per attribuire lesioni ai
fermati». Eh già i poliziotti si sono fatti male da soli e Jfk si è suicidato.
Eppure raramente (leggi mai) abbiamo sentito una parola contro queste follie.
Anzi il 23 luglio c’è stata pure una fiaccolata in sostegno dei
violenti. Quella che sto per scrivere non è sempre una bella frase (la
delazione è spesso poco liberale), ma questo è uno di quei casi in cui è bene
dirla: «chi non denuncia è complice».
di Matteo Borghi (L'Intraprendente)
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