Nel feudo di
Penati si è realizzata pienamente l'idea togliattiana di partito come strumento
egemone, in grado di condizionare la libera espressione degli interessi
economici. Marinaro e Di Caterina lo raccontano: leggere per capire, e uscire
dal Novecento.
Al netto
delle inclinazioni soggettive degli interpreti e delle esasperazioni del
contesto, il “sistema Sesto”, può essere visto come l’attuazione organica del progetto peculiare del
partito novecentesco. Specie di quello della versione togliattiana,
per molti versi ricalcata dall’esperienza del fascismo. Ne costituisce
una declinazione – si può dire – compiuta. Vediamo perché.
Rappresenta il trionfo della logica che vede nei
partiti degli strumenti di mediazione, o meglio, di intermediazione, al
limite totalizzanti, tra istituzioni e società. I semafori che possono
consentire, impedire o rallentare, in ogni caso condizionare, la libera
espressione degli interessi economici. Dietro il paravento della
programmazione e lo scudo di teorie keynesiane piegate a pretesto ideologico,
il partito agisce come un filtro onnipresente, trasferendo in modi
potenti i propri input alle istituzioni locali. Così, quando, nel corso degli
anni Ottanta del secolo scorso, le trasformazioni del settore manifatturiero e
lo svuotamento delle grandi fabbriche liberarono aree vastissime e spesso di
pregio, l’avvento della “pianificazione contrattata” – di per sé un passaggio
inevitabile verso una gestione del territorio più flessibile e intelligente
della vecchia gabbia dei piani regolatori – rappresentò l’inizio di una stagione
in cui il protagonismo disinvolto di molti fu esaltato dalla possibilità di
imporre taglie e di ricavare benefici monetari. A titolo personale o per il
partito, forti della maggiore discrezionalità garantita dalle nuove norme.
Sempre, però, in nome e per conto del partito.
Nel frattempo, il partito rimane la stella polare di
una vasta costellazione di relazioni, di realtà associative, di
interessi economici, di strumenti di consenso. Il collante tra i
gruppi di pressione che trovano voce al suo interno e le istituzioni. Quello di
Sesto San Giovanni è, per certi versi, un caso limite. Una
enclave “rossa” considerata inespugnabile, una città retta da una sorta di regime,
grazie a una composizione sociale che garantiva al Pci percentuali elettorali
bulgare e ad una rete di organizzazioni estese ai ceti medi che ne
consolidavano il consenso, dallo sport al tempo libero alla cultura. Con al
centro, appunto, “il partito”. Convinto che il proprio sistema
autoreferenziale fosse in grado di interpretare la complessità sociale che
stava avanzando e così sicuro di sé da coltivare nostalgie ideologiche
che altrove non sarebbero state tollerate. Così forte, anche sul piano
economico, da costituire una sorta di zona franca per il Pci (e poi per
il Pds e i Ds) milanese, fino a condizionarne le scelte e ad imporre i suoi
uomini alla guida della Federazione metropolitana. Come insegna, appunto, il
caso di Penati. Il quale, oltre ad essere l’espressione orgogliosa di
questo mondo e di questa ideologia, rappresenta una caso di studio delle
trasformazioni intervenute, specie nell’ambito della sinistra, nell’antropologia
dei dirigenti politici. Di come, di fronte alla crisi della politica, al
cedimento dell’ideologia, al deficit di rappresentanza dei partiti, un intero
ceto politico abbia finito per autonomizzarsi, per imporsi in virtù della
propria professionalità politica, delle proprie capacità “manageriali”.
Facendo pesare la propria abilità nel reperire nuovi asset, in termini di
consenso politico ma anche di risorse economiche, con cui surrogare la caduta
libera del partito. Dirigenti in grado di conquistare margini di autonomia fino
ad allora sconosciuti, di godere di una delega ampia e incondizionata. Agendo
da plenipotenziari, più che da leader. Era questo, in fondo, il profilo
esaltato da Pierluigi Bersani quando parlava di “usato sicuro”. Che poi,
si è visto, tanto sicuro non era.
Emilio Russo (L'Intraprendente)
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