Ci sono 28
miliardi all’anno che vengono buttati dalla pubblica amministrazione.
Potrebbero essere utilizzati per cancellare l’Imu sulla prima casa, sui
capannoni e sui negozi, per non aumentare l’Iva al 21% (semmai si potrebbe
riportare al 20), per pagare la cassa integrazione in deroga ai lavoratori
delle piccole e medie imprese in difficoltà, per tagliare le tasse sulla busta
paga e per alleggerire l’Irap. Basta? Una trentina di miliardi all’anno sono un
paio di punti di Pil. Non saremmo più sotto procedura d’infrazione della Ue per
aver un deficit/Pil sopra il 3%. In più il debito pubblico non rappresenterebbe
più un problema: con la ripresa e il conseguente aumento delle entrate fiscali,
il rosso dello Stato diventerebbe, per incanto, sostenibile. Il tutto senza
aiuti da parte della Bce o strigliate della signora Merkel. Domanda: dov’è
questo tesoro? Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, dice che
non andremo in default, tuttavia si fa fatica a trovare 4-5 miliardi in
un contenitore da 759 miliardi, che rappresenta il totale della spesa pubblica
del 2012... Beh, bisognerebbe avere il coraggio di introdurre, una volta per
tutte, i costi standard e impostare una revisione - su base meritocratica - di
tutta la macchina statale.
Da dove
spunta la cifra di 28 miliardi? Uno studio di Unioncamere Veneto del 2009, ma
ancora attualissimo, sostiene che estendendo il «modello Veneto» a tutta la
pubblica amministrazione italiana si otterrebbero precisamente 27,845 miliardi.
Un terzo del costo per interessi sul debito pubblico. Le maggiori economie di
spesa sarebbero legate alla gestione del personale (circa 17 miliardi in meno),
con una riduzione netta di oltre 500mila unità, facendo così scendere la
dimensione del pubblico impiego a poco più di tre milioni.
Scarto
abissale -
Fantapolitica? Ognuno può pensarla come crede, certamente gli attuali numeri
del Belpaese non reggono più. Perché se è vero che l’Italia presenta una quota
di spesa pubblica decentrata (33,2%) che è di poco inferiore a quella di un
Paese di grande tradizione federale come la Germania (38,8%), è altrettanto
vero che il decentramento delle entrate è praticamente fermo: nel nostro Paese
solo il 18,4% degli introiti fiscali e di altra natura sono imputabili
direttamente alle amministrazioni locali, a fronte del 34,4% della
Germania. C’è uno scarto abissale tra competenze di spesa ed entrate proprie delle
amministrazioni locali che viene compensato con i trasferimenti da parte dello
Stato, assegnati tradizionalmente sulla base del principio della spesa storica.
Senza distinguere fra chi spende i soldi bene o chi li butta, perché tanto sa
che il rubinetto romano non si chiuderà mai.
È vero che
i governi Berlusconi e Monti, dal 2010 in poi, hanno messo un freno alla
spesa delle regioni a statuto ordinario, ma gli sforzi finanziari (4 miliardi
nel 2011, 5,945 nel 2012 e 8,1 nel 2013) sono stati
distribuiti, appunto, sulla base dei vecchi trasferimenti statali con criteri
di “uniformità”, che mirano solo all’emersione a garantire gli
obiettivi finanziari prefissati.
Federalismo
vincente - Con i
costi standard, uguali per tutti, si nota invece che gli Stati federali
presentano costi di funzionamento minori (0,564 contro una media europea pari a
1,000) di quelli registrati dai Paesi unitari (0,948). Un’ulteriore conferma
relativamente ai vantaggi prodotti da un sistema federale ben rodato è data dal
confronto tra l’assetto complessivo della PA tedesca con quella nostra.
L’Italia e il suo centralismo perdono il confronto con la Germania federale in
tutti i parametri: abbiamo un peggior rapporto dipendenti/abitanti, un maggior
costo medio del lavoro pubblico e una spesa per consumi intermedi procapite più
elevata. Il Veneto si avvicina agli standard tedeschi, eppure a Roma
preferiscono non vedere gli sprechi.
Fuori dal mondo - Vogliamo ricordare qualche esempio? Partiamo dalle pensione
(cosiddette) di invalidità. Per effetto del trasferimento di piene competenze
in materia di assistenza sociale (in base al Titolo V) il numero degli invalidi
civili è quasi di colpo passato dal 3,3% al 4,7% della popolazione. La spesa
corrente è quasi conseguentemente passata da 6 a 16 miliardi di euro. Cos’è?
C’è stata un’epidemia che noi non sapevamo? Alla voce “anomalie della sanità”
- si legge in una relazione del 2010 del Copaff, l’ex
Commissione paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale - si
citano poi alcune pazzie nell’acquisto di attrezzature. Ad esempio la
stessa Tac a 64 slice, costa 1.027 euro in Emilia Romagna, 1.397 euro in Lazio,
con una differenza di 370 euro, pari al 36%. Per quanto concerne i dispositivi
medici di uso frequente, ad esempio una siringa da 5 mm in Sicilia costa 0,05
euro contro 0,03 euro in Toscana. Quasi il doppio. Ci sono poi ospedali dove i
soli costi del personale superano del doppio del valore del servizio prodotto a
favore dei cittadini. La garza non sterile può costare dai 3,29 ai 4,65 euro al
chilo. E pensare che «la sola possibilità di gestire a livello locale una
maggiore quantità di risorse - sottolinea Unioncamere Veneto - avrebbe
poi un “effetto volano” sul Pil procapite, che potrebbe così crescere del 9,2%.
Se gli italiani, da un paio d’anni, hanno iniziato la dieta della spesa, perché
non lo fa lo Stato?
di Giuliano
Zulin (Libero)
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