L'ultima follia della famiglia Cassol contro Graziano
Stacchio: "Come se noi prendessimo una pistola e ora andassimo a
sparargli..."
La roulotte
non è di quelle fatiscenti, modello accampamento rom. Ricorda piuttosto quei
caravan confortevoli che ospitano gli artisti dei circhi di lusso. Qui poco
dopo il cartello di «Benvenuti a Fontanelle», nell'Opitergino, c'è la «casa» di
Albano Casson.
Si tratta di
una casa con le ruote, ma non chiamatela «nomade», altrimenti la famiglia
Cassol si arrabbia: «Noi non siamo rom, siamo nati in Veneto e ci consideriamo razza
Piave a tutti gli effetti». La disputa sull'effettiva identità etnica dei
Cassol ci interessa poco, anche perché rischia di portarci fuori strada
rispetto alla via maestra di questa brutta storia, lungo la quale un bandito ha
perso la vita e un uomo perbene rischia di finire sul banco degli imputati.
Il bandito
risponde al nome di Albano Cassol, 41 anni; l'uomo perbene si chiama Graziano
Stacchio, 65 anni. La sera di martedì 2 febbraio Cassol è morto nell'assalto di
un commando criminale a una gioielleria di Ponte di Nanto, nel Basso vicentino.
A ucciderlo è stato il benzinaio Graziano Stacchio, «reo» di non essersi girato
dall'altra parte ma di aver difeso la commessa e il titolare del negozio che in
quel momento si trovavano sotto la minaccia delle armi. Graziano ha prima sparato
un colpo di fucile in aria, poi ha mirato alle gambe di Cassol, successivamente
morto dissanguato durante la fuga in auto. Il caso potrebbe chiudersi qui. La
dinamica è chiara. Le immagini delle telecamere di sorveglianza sono lì a
dimostralo.
Invece
avviene un cortocircuito che - prima ancora che giudiziario - è mediatico. La
Procura di Treviso indaga il benzinaio per eccesso di legittima difesa.
Giornali e televisioni si scatenano nel dar voce alla famiglia del rapinatore
ucciso. E qui la situazione vira scivola subito sul piano inclinato del
paradosso. Con il benzinaio che diventa «colpevole» e il rapinatore «vittima».
Almeno questo è il delirante schema mentale o della famiglia Cassol che urla ai
giornalisti di «non voler parlare». Ma poi, dalla scaletta cromata del loro
caravan, urlano frasi sconsiderate del tipo: «Quel benzinaio doveva farsi i
fatti (eufemismo, ndr ) suoi.. non ci si fa giustizia da soli... e come se noi
adesso prendessimo una pistola e andassimo a sparargli...». Chi non credesse
che queste frasi siano state pronunciate davvero, può rivedere l'ultima puntata
della programma Quinta Colonna condotta su Rete4 da Paolo Del Debbio.
All'inviato della trasmissione i parenti di Cassol hanno urlato: «Ma tu da
piccolo non hai mai rubato delle cioccolate? Tutti abbiamo commesso degli
errori...». Ma non tutti, per fortuna, vanno a fare rapine in gioielleria. Però
anche su questo punto dalla famiglia Cassol non arriva nessuna autocritica,
solo accuse contro lo «Stato italiano che non ci consente di fare un lavoro
onesto». Una tesi che i parenti più stretti di Albano Cassol confermano anche a
noi del Giornale : «Albano aveva messo la testa a posto... aveva chiesto un
lavoro anche al sindaco del paese... si è trovato in una situazione assurda...
ma non meritava di fare quella fine... vogliamo giustizia... chi ha sbagliato
deve pagare... contro di noi sentiamo odio e calunnie... ma siamo pronti a
denunciare tutti... abbiamo ingaggiato ben due avvocati». E qui ritorna il
paradosso: con la famiglia di un bandito che chiede «giustizia» e un uomo mite
dipinto come un giustiziere senza scrupoli. Ma i curriculum vitae dei due
«contendenti» parlano chiaro: Albano Cassol ha una fedina penale nera come la
pece; Graziano Stacchio ha sulla parete un attestato di «benemerenza al valor
civico». Anni fa salvò la vita a una ragazza finita con l'auto nel fiume; quel
maledetto 2 febbraio imbracciò il fucile per difendere due persone minacciate
dai rapinatori. Poi è andata com'è andata.
Ma Stacchio
- a differenza di Cassol - non ha nulla di cui vergognarsi. Eppure questo
benzinaio sta sentendo in questi giorni sulle sue spalle tutto il peso di una
tragedia per la quale si mostra disposto addirittura a recitare un mea culpa
sull'altare del buonismo più demagogico: «Mi dispiace per la famiglia Cassol...
sono vicino alla moglie... e ai suoi bambini... anch'io ho dei figli e dei
nipoti...». È questo un sentimento di solidarietà che fa onore a Graziano
Stacchio, ma è come certi ribaltamenti di ruolo ci facciano perdere di vista un
dato incontrovertibile: se il giorno della rapina Albano Cassol, invece di
indossare giubbotto antiproiettile e armarsi fino ai denti, fosse rimasto a
casa con moglie e figli, oggi sarebbe ancora vivo e potrebbe godersi, come ogni
persona onesta, un'esistenza felice e serena. Invece no, Cassol - lo stesso
Cassol che secondo i parenti «aveva messo la testa a posto» - il 2 febbraio ha
assaltato una gioielleria, finendo per rimetterci la pelle. Il resto sono solo
chiacchiere. E lo sa bene pure l'avvocato Francesco Murgia, rappresentante
legale della famiglia Cassol. Lui - da esperto del diritto qual è - a ogni
«rischio di strumentalizzazione», oppone saggiamente la pacatezza dell'uomo di
legge: «Nessuna vendetta, la vedova di Albano Cassol vuole solo conoscere la
verità».
Ma la
«verità», in questo caso, è sotto gli occhi di tutti. Compresi quelli delle
telecamere di sorveglianza che hanno ripreso la scena. Si vede un benzinaio che
prima spara in alto e poi, minacciato da Cassol che risponde al fuoco (ad
altezza d'uomo), esplode un colpo per difendersi da morte sicura. Serve altro?
di Nino Materi (Giornale)
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