Comunque vada è già un successo. Ci sono già due vincitrici nel referendum scozzese: libertà e democrazia. Con una lezione di civiltà che non merita altri commenti in Scozia si affronta, con una compostezza sconosciuta in Italia, una prova straordinaria in cui si chiede ai cittadini di pronunciarsi se rimanere o meno nel Regno Unito.
I leader dei partiti britannici, unionisti per definizione, diversamente da quanto accade altrove, in Spagna come in Italia, hanno garantito a Edimburgo una maxi-devoluzione di poteri: questa concessione è la dimostrazione che le ragioni scozzesi non sono infondate.
Nel 1996 Tony Blair, alla guida dei Laburisti, aprì una nuova stagione nella devoluzione di poteri da Londra a Edimburgo e, in misura diversa, a Cardiff e proprio il 18 settembre del 1997 i Gallesi dettero il loro assenso per un ampliamento dell’autonomia della loro terra.
Di devoluzione, in verità, in Gran Bretagna si era iniziato a parlare nel 1919, con la “Conference on Devolution” organizzato dalla Camera dei Comuni su iniziativa di un gruppo di parlamentari conservatori. Già in quell’occasione, nel 1919, si era evidenziata la necessità di un diverso approccio alle realtà gallesi e scozzesi determinate in Galles dalla maggior rilevanza dell’aspetto linguistico culturale, in Scozia dal radicamento diffuso del valore dell’autogoverno, dando così l’avvio all’impianto asimmetrico, con diversi livelli di autonomia riconosciuta a determinate zone.
Nella storia e nell’attualità della cronaca odierna istituzionale britannica emerge un dato: il profondo rispetto della libertà dei cittadini e la supremazia del cittadino rispetto allo stato. Lo stato è uno strumento al servizio del cittadino.
Ben diverso l’approccio culturale, e politico, dei Paesi latini e dell’Italia dove il cittadino è un suddito del quale lo stato non si fida. Anzi: talvolta, per far valere un proprio diritto bisogna dar battaglia. In Italia il caso del Sudtirolo, con la sua stagione delle bombe, da questo punto di vista è emblematico e chi, come me, ripugna e aborrisce la violenza si chiede perché gli venga negata la strada maestra della democrazia riconosciuta oggi in Scozia.
E’ in virtù dell’atteggiamento culturale, stato-padrone contro cittadino-suddito, che lo stato italiano, le sue consorterie e apparati, impediscono al cittadino di pronunciarsi su temi che lo riguardano e sui quali, invece, avrebbe ben diritto a dire la propria.
Scriveva Sergio Romano ancora negli anni Novanta relativamente all’Italia: “Alle grandi istituzioni, ai partiti nazionali e ai sindacati il federalismo non è mai piaciuto” aggiungendo poi “la verità è che la classe politica nazionale sa perfettamente che l’autentica autonomia di alcune importanti regioni la priverebbe di gran parte della sua autorità…Esiste una nomenklatura politica, amministrativa, economica, sindacale, per cui l’Italia deve restare ‘una e indivisibile’. Per coloro che ne fanno parte non è soltanto una patria: è anche un grande collegio elettorale, un serbatoio di voti, un datore di lavoro, la ragione sociale del loro mestiere”.
L’abisso che ci separa da Londra ed Edimburgo (e dall’Europa avanzata) è evidente. Il referendum scozzese del 18 settembre conferma che un vero stato antepone ai proprio interessi quelli dei cittadini e qualunque sia il risultato della consultazione essa dimostrerà l’arretratezza del sistema italiano e il vero divario che ci allontana dai Paesi a democrazia avanzata, che, non casualmente, sono anche i Paesi a maggior indice di sviluppo economico.
di Roberto Ciambetti, Assessore Regione
Veneto
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