Negli anni Settanta i movimenti eversivi rossi
trovarono un appoggio nella magistratura. Così i pm avrebbero fatto la guerra
alla borghesia.
La
magistratura non è più un ordine costituzionalmente riconosciuto, bensì un
disordine legato soltanto dalla velleitaria individuazione di quello che appare
di volta in volta il nemico comune da combattere.
Magistratura
democratica nacque nel 1964, coagulando intorno a sé magistrati genericamente
«di sinistra» o «progressisti»: i suoi aderenti erano particolarmente motivati
dall'affermazione della piena autonomia ed indipendenza dell'ordine giudiziario
rispetto al potere politico ed alla struttura gerarchica dei giudici. Il 30
novembre 1969, tuttavia, la formazione si spaccò: ne uscirono tutte le
componenti moderate, accusando la frazione di sinistra di essere troppo
sbilanciata a favore dei nuovi movimenti operai e studenteschi sorti nel '68.
L'occasione della rottura fu rappresentata dal «caso Tolin». Francesco Tolin
era direttore del periodico Potere Operaio, che il 30 ottobre 69 pubblicò un
articolo dal titolo Sì alla violenza operaia, che portò successivamente alla
condanna del direttore a 17 mesi di carcere senza condizionale. Una parte di Md
si schierò in difesa dell'articolo contro i reati di opinione, e
successivamente criticò con toni molto duri la sentenza di condanna:
atteggiamenti che non furono tollerati dalla parte moderata di quel
raggruppamento, che diede successivamente vita alla corrente «Impegno
Costituzionale».
Questi
ultimi, dunque, rimasero fermamente ancorati alle regole dello Stato di
diritto, pur rivendicando ai giudici il potere-dovere di applicare
integralmente i dettami della Carta Costituzionale, e la piena autonomia ed
indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto al potere politico, senza mai
uscire dai canoni tradizionali della legge: certezza del diritto, generalità ed
astrattezza della norma da applicare al caso concreto. Solo in Italia i
movimenti eversivi di estrema sinistra trovarono un appoggio nella più
conservatrice delle corporazioni: la magistratura. Fu un caso? Certamente no, e
in seguito se ne spiegheranno le ragioni. Alla neonata Md era necessario
fornire un background politico che le garantisse una forte connotazione di
sinistra (anzi, di estrema sinistra): per questo non c'erano eccessivi
problemi, in quanto la maggior parte delle teste pensanti di quel gruppo si
erano formate - negli anni '67/74 - nei grandi calderoni politico-ideologici
che erano in quel periodo le Università, e trovavano un forte supporto nei
movimenti antagonisti emergenti. Fu Luigi Ferrajoli, mente finissima e giurista
eccellente, poi uscito dalla magistratura per abbracciare la carriera
accademica) il cuore pulsante dell'elaborazione politica della nuova Md, che
vedeva nei gruppuscoli extraparlamentari di sinistra i portatori del «sol
dell'avvenire», i quali avrebbero inevitabilmente abbattuto lo Stato borghese e
le sue disuguaglianze di classe. Con il documento Per una strategia politica di
Magistratura Democratica Ferrajoli - insieme a Senese ed Accattatis - presentò
una relazione al congresso della nuova Md tenutosi a Roma il 3 dicembre 1971,
in cui la piattaforma politica del raggruppamento definiva la «giustizia
borghese come giustizia di classe» e la stessa Md «come componente del
movimento di classe», che avrebbe dovuto far ricorso alle «contraddizioni
interne dell'ordinamento: la giurisprudenza alternativa consiste nell'applicare
fino alle loro estreme conseguenze i principi eversivi dell'apparato normativo
borghese».
Il giurista Tarello, nella sua relazione,
concludeva l'intervento in termini estremamente preoccupati, affermando che
«...questo tipo di analisi politica porta a favorire non una vera indipendenza
ma piuttosto una dipendenza e un controllo della magistratura». Nessuno, allora
e per molti anni a venire, colse appieno il pericolo (e il segnale) che poteva
derivare dalle teorizzazioni di Ferrajoli e del gruppo toscano, e dalla critica
aspra di Tarello: nessuno, tranne i membri di Md più vicini al Pci e - molto
tempo dopo - i massimi dirigenti di questo partito. Una risposta alla strategia
politica messa in campo dai giudici di estrema sinistra fu data da Domenico
Pulitanò - giudice di Milano notoriamente legato all'epoca al Pci: «La prassi
dei magistrati democratici si pone e vuole porsi come alternativa non già ai
valori democratico-borghesi (il che rischierebbe di portarci oltre la legalità)
ma alle loro deformazioni autoritarie nella giurisprudenza corrente. Si può
definire un uso alternativo del diritto? Il problema è solo terminologico...
L'uso alternativo del diritto, là dove praticabile, è per noi un problema
politico prima che teorico, e la discussione metodologica non deve far perdere
di vista il fine politico». Non servono parole ulteriori per chiarire quale
differenza abissale di prospettive vi fosse tra l'estrema sinistra e la
sinistra moderata di Md: l'uso alternativo del diritto, infatti, non era per
nulla un «problema terminologico». Intorno ad esso si giocava una scelta di
campo di dimensioni storiche, perché, a memoria, per la prima volta una parte
consistente (e soprattutto ben attrezzata culturalmente) della burocrazia
statale si schierava nella lotta di classe, sentendosene pienamente partecipe.
Dopo di allora, la frazione filo-Pci di Md praticò una sorta di entrismo: né
aderire né sabotare, ma restare in attesa, secondo il vecchio principio
leninista pas d'ennemi à gauche («Neanche un nemico a sinistra») nella sua
accezione meno truculenta e stalinista. La magistratura milanese - dove pure la
frazione di estrema sinistra di Md era la più forte d'Italia - si adeguò
pienamente a questa tattica.
di Sergio d'Angelo (Giornale)
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