In questo
momento quasi seimila tra imprese, artigiani, commercianti e partite Iva
incrociano le braccia, smettendo di produrre ricchezza e posti di lavoro. Il
messaggio è diretto a Roma: o si cambia o vi mostriamo seriamente cos'è
l'Italia senza noi. Niente
Saracinesche abbassate. Chiusi. Partite Iva, commercianti,
piccole imprese e artigiani. Cinquemila e seicento uffici
serrati, angoli produttivi blindati, morti per quattro ore. Lampadine spente,
dipendenti e collaboratori a casa, stampanti a riposo. I computer che non si
attivano, gli ordini che non partono, le vendite immobilizzate. Niente “fax,
mail, telefoni”. Il mondo produttivo questa mattina è paralizzato per
quattro lunghe ore. Possono sembrare poche. Signori, sono tantissime nella
lingua di impresa. Sono l’ammasso di minuti che separa la ricchezza dal
farsi reale, tangibile; le stesse che si traducono in perdita per il Paese e
inefficienza. Nulla di più lontano da un imprenditore, la serrata. Per
questo simbolo dirompente, urlo sordo impossibile da non ascoltare: «Basta!».
Perché “Lavorare per noi stessi è un onore ma non basta per sopravvivere”,
recita la locandina firmata da Imprese che resistono, nata proprio per
tentare di arginare le prepotenze di uno Stato capace di esigere senza offrire
nulla, se non ostacoli.
Quel «basta» Antonella Lattuada, uno dei volti
dell’associazione, lo ribadisce mentre dice tutto con poche sillabe: «Abbiamo
il supporto di sei associazioni e l’endorsement del Tea Party Italia ed
è solo l’inizio». Sono stanchi, gli imprenditori, «stremati» e si riparte
«eliminando l’Irap, subito e diminuendo la pressione fiscale».
Perché mettere in «ginocchio noi significa mettere in ginocchio il Paese. I
soldi non è vero che non ci sono, vengono sprecati. Allora ci fermiamo, perché
oggi lavorare non produce profitto».
Lavorare non produce profitto. La pelle s’accappona. Lattuada non
smette: «Lavorare in Italia non serve più a niente». E lo dice che si inizia
con queste quattro ore, che si trasformeranno in ventiquattro e poi, iniquità
estrema vuole, in una settimana di braccia incrociate. Quel che pensavamo di
non vedere mai. E siamo con loro, per quanto vale. Siamo con chi ha tenuto in
piedi una nazione, l’ha sfamata e ha accettato capo chino una rapina
fiscale che ha dell’inverosimile e oggi si violenta chiudendo la porta.
Perché per ognuna di quelle imprese abbassare la saracinesca significa
spegnersi un po’ dentro, accoltellarsi per evitare di morire e siamo al punto
del coraggio arrabbiato. «Un po’ di sana autocritica non fa male: per anni
abbiamo pensato solo a lavorare, dodici ore al giorno, delegando la
gestione del prodotto delle nostre fatiche (le tasse, è bene si inizi a
chiamare le cose con il loro nome) a chi lo bruciava in nepotismi, malaffare,
inefficienza. Adesso basta». E non conta se mentre le parli quest’imprenditrice
è al volante, se l’hanno tamponata pochi minuti che la chiamassi, infila un
argomento dopo l’altro, come chi sa che il domani deve afferrarlo da sé. Si
arriva alle banche commerciali, «nate per sostenere lo sviluppo», ormai
lontane dal loro primo scopo. «I soldi dei correntisti vengono spesi per
comprare titoli marci» e l’accesso al credito viene negato.
di Federica Dato (L'Intraprendente)
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