Quando il senatore piddino Nicola Latorre ha
ringraziato Letta per «il suo impegno per evitare il collasso finanziario e
meritare credibilità internazionale» non son partiti né applausi né fischi. In
generale la fiducia al Senato, quella più difficoltosa di ottenere rispetto
alla Camera, è apparsa come una cerimonia spenta e loffa conclusasi
con 173 voti favorevoli su una maggioranza minima di 158.
Una proroga artificiale di un governo
senza un’idea politica alla base se non quella di dilazionare a tempo
indeterminato uno status quo che non ha più senso di esistere.
Tanto più che ciò avviene mentre, in tutta l’Italia, stanno andando in scena le
proteste di chi non ce la fa più. Quella dei Forconi è una protesta che rischia di essere
politicizzata, a tratti addirittura violenta e prevaricatrice, ma comunque più verace di quel che
avviene quotidianamente nei Palazzi. C’è chi, vessato dalle tasse,
non ce la fa più a mantenere uno Stato che – nonostante una caduta del Pil di
oltre 100 miliardi dal 2007 al 2013 – ha scelto scientemente di aumentare la
spesa pubblica all’incirca di un pari importo. Un gap che è puntualmente
ricaduto sui lavoratori in proprio e sui dipendenti del settore privato.
Quando il senatore leghista Raffaele Volpi ha
accennato alla possibilità di «non considerare tabù la possibilità di un taglio
agli stipendi dei dipendenti pubblici, che in altre nazioni si
son decurtati fino al 30%» è stato sommerso dalle risate e dai fischi dai
banchi di sinistra. Per tutta risposta, nella sua replica, Letta ha puntato
ancora sull’assistenzialismo come via maestra: «sono d’accordo che il
sostegno di inclusione attiva, destinato alle famiglie che rischiano la deriva
verso la povertà, siano maggiormente tarati verso il Mezzogiorno». Ancora una
volta ad esser massacrati saranno i produttori di ricchezza del Nord. Ma anche
del Sud.
Non a caso a rispondergli più duramente è stato Vincenzo
D’Anna, senatore casertano di Grandi autonomie e libertà: «Lo statalismo
è la vera patologia italiana. L’idea della redistribuzione della
ricchezza è eufonica, ma in questa nazione l’alta tassazione e lo Stato
criminogeno non han fatto che indebolire i produttori di ricchezza». «Lei
presidente – ha aggiunto col consueto, pesante, accento meridionale – deve
riformare la pubblica amministrazione secondo criteri di produttività,
economicità, efficienza. Lei deve smantellare carrozzoni e clientele». Belle
parole che ci saremmo aspettati, pur con un tono diverso, dallo stesso Letta.
Invece, nel suo programma, non v’è alcuna
traccia di lavoro, crescita, produttività o meritocrazia,
le uniche parole d’ordine che potrebbero farci uscire dalla crisi. Che,
intanto, punge chi sta fuori dal Palazzo.
di Matteo Borghi (Intraprendente)
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