Il neosegretario rispolvera i vecchi cavalli di
battaglia padani, attacca l'Ue Roma e gli immigrati: "Se ritroviamo le
nostre radici, arriviamo al 10%".
Beppe
Grillo, al confronto, sembra una mammoletta. Al Lingotto di Torino, antico
tempio dell'automobile e oggi simbolo di un paese che forse non c'è più, la
Lega si strappa il doppiopetto e sfodera gli artigli delle origini.
Un'unghiata
a Roma, un'altra e un'altra ancora a Bruxelles e poi ai giornalisti che
falsificherebbero il pensiero del Carroccio. Ma sì, il vero Vaffa day non è
quello celebrato un paio di settimane fa a Genova dal leader dei 5 Stelle, ma
questo delle camicie verdi che per acclamazione proclamano Matteo Salvini
segretario e confermano Umberto Bossi presidente.
I vaffa sono
espliciti e ripetuti, in tutte le direzioni. Grillo, nei suoi discorsi, ha un
tratto ironico e grottesco, Salvini no. Carica il fucile dell'indignazione e
poi spara. Spara. Spara. Lascia fluire la rabbia e lancia ultimatum e sfide:
«La Lega deve tornare a fare la Lega. Il tempo delle mediazioni è finito, le
imprese non ce la fanno più. E allora noi dobbiamo disubbidire allo Stato. È
arrivato il momento della disubbidienza». Come? Il neo segretario resta sul
vago, ma fa capire che qualche gesto eclatante arriverà sul fronte della tasse.
Certo, fa impressione vedere che Salvini maneggia la clava e ad ascoltarlo ci
sono ben tre governatori del ricco Nord: Roberto Cota, Roberto Maroni e Luca
Zaia. Ma questo passa il convento. «Se arrivano i forconi leghisti - minaccia
Salvini - i forconi di adesso sembreranno una passeggiata della salute. E
presto metteremo in piedi un referendum contro l'euro e un altro contro i
sindacati. Perché oggi in Italia è più facile divorziare che smettere di pagare
la quota di iscrizione ad un sindacato».
Gesticola il
quarantenne Salvini e la sua camicia bianca pare fare pendant a quella di
Matteo Renzi che nelle stesse ore comincia la sua avventura parallela alla
guida del Pd. Ma è solo una prima impressione: i due sono agli antipodi.
«Bisogna ricominciare a chiamare i clandestini col loro nome: non sono
migranti, non sono profughi, non sono richiedenti asilo, sono clandestini. E
devono essere respinti a calci nel sedere. Tutti, tutti gli immigrati. Via.
Via. Via». Roberto Maroni, in cravatta verde, lo applaude a scena aperta, Bossi
invece lo guarda perplesso. Sono seduti l'uno di fianco all'altro, Bobo e
Umberto, le due Leghe che non si sopportano, il padre nobile e il figlio che ha
fatto fuori il genitore, lo sconfitto e il vero vincitore dell'ultima stagione.
E però si capisce che la voglia di non abbandonare la sua creatura alla fine ha
vinto su ogni calcolo dentro la testa di Bossi. E così, dopo l'umiliazione di
una sconfitta bruciante alle primarie, è lì. Seduto. Con regolamentare camicia
verde. Come un militante capitato quasi per sbaglio a quel tavolo. A tratti
stranito. L'economista Claudio Borghi Aquilini elogia la sua straordinaria
preveggenza sui guasti dell'Europa e lui alza il braccio in segno di vittoria.
Con un candore quasi infantile. E accetta pure quella presidenza che sa di
strapuntino.
Sul palco
salgono anche l'olandese Geert Wilders, autore del film anti islamico Fitna,
l'austriaco Heinz-Christian Strache, erede di Jörg Haider, il francese Ludovic
de Danne, portavoce di Marine Le Pen. È l'internazionale dei no euro, l'armata
euroscettica, l'altra Europa. Se la prendono anche loro con l'islam, con gli
immigrati, con i tecnocrati di Bruxelles. Bossi li osserva sospettoso. Salvini
invece li scavalca a destra: «Faremo una manifestazione comune a Bruxelles a
marzo, poi presenteremo una piattaforma unitaria per le Europee. La Lega se fa
la Lega può arrivare al 10 per cento. Dobbiamo mandare a casa i criminali e gli
assassini di Bruxelles». E di nuovo piovono vaffa su vaffa, fra standing
ovation, elmi celtici, striscioni inneggianti all'altro Matteo.
di Stefano Zurlo (Giornale)
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