Il ministro dello Sviluppo non ha bloccato lo
strapotere delle toghe sull’Ilva. Da sindaco schivò un’indagine per tangenti
facendosi passare per sprovveduto.
Prima
della maretta poi placata nel governo, il Pd Flavio Zanonato aveva mostrato
tale energia sul caso Ilva da farsi notare come ministro dello Sviluppo
economico. Godimento aveva suscitato nel sottoscritto il progettato decreto per
riattivare in ogni caso le acciaierie Riva nonostante il sequestro giudiziario.
Il
provvedimento conteneva il principio che nessuno - neanche il magistrato che
confisca - può bloccare un'industria danneggiando l'economia del Paese. Il
giudice non è una monade onnipotente che agisce a capocchia, ma deve badare
all'interesse nazionale. E, in ogni caso, alla politica spetta l'ultima parola.
Il piacere
per questo atteggiamento zanonatiano nasceva dal contrasto con il premier
Letta. Il giovane, sempre più cinico, andava infatti dicendo che la
magistratura in Italia non rappresenta un problema, lo Stato di diritto
funziona, ecc. Nel dirlo, pensava ai guai del Cav, che banalizzava per
disinteresse umano e opportunismo politico. Contemporaneamente, però, taceva
gli altri disastri della nostra giustizia, massimo dei quali la totale
imprevedibilità: tot capita, tot sententiae. Bene. Se questo è Letta, mi sono
detto, viva Zanonato che invece di aspettare che la toga si ravveda a babbo
morto, le detta lui il comportamento: comunque tu decida, sappi che non puoi
fare il guastatore.
Il decreto, strasbandierato, è rimasto però nel cassetto. Si è scelto un
ripiego, per cui l'attività dell'Ilva è ripresa zoppicando, senza tuttavia che
nuove regole frenino in futuro la capricciosa discrezionalità degli ermellini.
La figura di Zanonato si è così ridimensionata e il filo si è riavvolto,
riportandolo nei modesti panni di ex sindaco di Padova sbarcato a Roma per
tentare l'avventura da ministro.Il
sessantatreenne Zanonato è stato il primo a essere chiamato «sindaco sceriffo».
Infatti - comunista dai tempi di Luigi Longo, dunque all'antica - non è un
buonista alla Veltroni ma uomo di ramazza. Quattro volte primo cittadino (tre
con elezione diretta) - dal 1993 al 2013, salvo intervalli - per un totale di
una quindicina d'anni, Zanonato ha fatto di Padova la città dei divieti. Multò
chi ciondolava per strada con la birra in mano, fece chiudere a mezzanotte i
caffè del centro per evitare i capannelli vocianti di ragazzotti brilli, puniva
clienti e lucciole con contravvenzioni da capogiro. Celeberrimo, l'innalzamento
di un muro di metallo - lungo 84 metri, alto tre - per isolare Via Anelli,
assediata da spacciatori extracomunitari, che gli meritò l'epiteto tolkieniano
di Signore di Via Anelli. L'aneddotica rigorista di Zanonato è infinita. Fa il
paio col caratteraccio, brusco fino al parossismo. Se ha i cinque minuti, esce
di senno e insulta i colleghi in pieno consiglio comunale. In altri tempi,
sarebbe andato incontro a duelli e sbudellamenti poiché, piccolotto e
rotondetto com'è, non ha certo il fisico dello spadaccino. Non è invece
rancoroso e i più lo considerano un burbero benefico.
La prima tessera di Flavio fu quella dell'Azione cattolica, poiché era di
famiglia operaia devota. Crebbe in parrocchia e insegnò catechismo ai più
piccoli. Cambiò piega a diciotto anni, dopo il diploma di Perito industriale.
Si iscrisse a Filosofia e prese la tessera della Fgci. Fu, da allora, il
classico burocrate comunista, ciecamente obbediente al partito, complice e
omertoso. Trascurò anche la laurea, facendo gli esami ma non la tesi. Entrato
venticinquenne in consiglio comunale, vi restò nei vari ruoli - consigliere,
capogruppo, sindaco - trentotto anni (salvo un intermezzo, 1999-2004, alla
Regione Veneto). Scalati i vari gradi del comunismo cittadino, toccò a lui
introdurre il comizio di Piazza della Frutta in cui, il 7 giugno 1984, Enrico
Berlinguer ebbe l'emorragia che lo uccise quattro giorni dopo. Nel 1989,
chiamato a Botteghe Oscure, quartiere generale del Pci, fu per un biennio
responsabile dell'Ufficio emigrazione-immigrazione. Tornato a casa col lustrino
del soggiorno romano, il partito puntò su di lui per la massima carica
cittadina, allora ancora in salde mani dc.
In attesa,
fece il suo primo e unico quasi lavoro: dipendente di una coop edilizia rossa,
la Cles. Vi parcheggiò un annetto (1991-1992) con il compito di trasportare
borsoni con mazzette (si parlò di oltre cento milioni di lire). Li consegnava a
imprenditori per farli partecipare pro forma ad appalti che dovevano però
essere vinti dalle coop. Quando intuì che il pm di Venezia, Carlo Nordio, stava
incriminandolo, lo precedette con una memoria difensiva in cui ammise che
portava soldi, ma senza saperne lo scopo. Un incarico, aggiunse, del tutto
marginale, che riteneva lecito e che chiunque avrebbe potuto eseguire, essendo
lui nella Cles l'ultima ruota del carro. «Di fronte a tale disarmante difesa -
scrive il pm Nordio, prendendolo per i fondelli - l'accusa si arrende. È
infatti impossibile dimostrare la sua volontà di concorrere a un reato come la
turbativa d'asta che postula un'intelligenza astuta». Per cui, dandogli del
bietolone, Nordio archiviò tutto, senza neanche un avviso di garanzia che lo
avrebbe messo in cattiva luce.
Così, mondo da ogni ombra, Flavio scansò
Tangentopoli e poté candidarsi a sindaco al posto del dc, Paolo Giarretta, che
stava a sua volta inciampando nella giustizia. Incriminato per una cosuccia, il
democristiano si dimise e il pdiessino Zanonato ne occupò il posto. Appena
ceduta la poltrona, Giarretta fu scagionato. Poi, crollata la Dc, e passato con
Ppi-Margherita e Rosy Bindi, alleati del Pds, il medesimo fu risarcito dagli
stessi comunisti padovani con un seggio al Senato.
Una volta sindaco, oltre alle sceriffate, Flavio fece proprio le cose che aveva
impedito alla città di attuare quando era all'opposizione. Finché le decisioni
le prendevano gli altri, nulla andava bene. Quando invece toccò a lui
distribuire gli appalti, tutto perfetto. Così, con il comunista, Padova ebbe le
opere che i dc avevano predisposto. Nell'arco dei quindici anni di regno, si
sono schierati con Flavio anche i preti. Non solo la Curia, ma pure Cl,
incarnata dall'imprenditore Graziano Debellini, amico di don Giussani, e magna
pars della Compagnia delle Opere patavina.
Zanonato è detto il ventriloquo di Pier Luigi Bersani, di cui è creatura. È lui
che l'ha imposto a Letta come ministro, esigendo lo stesso dicastero (l'ex
Industria) che per due volte - nel 1996 e nel 2006 - fu il suo e gli ha
affiancato la stessa squadra che fu la propria. Letta o non Letta, la prossima
tappa del Nostro è la candidatura nel 2015 alla presidenza del Veneto. Così,
dopo Padova, anche la Serenissima farà l'esperienza di questo politico che non
spicca ma non molla, più capomastro che stratega.
di Giancarlo Perna (Giornale)
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