lunedì 22 luglio 2013

Perché in Veneto si può (e si deve) votare il referendum



La realtà economica e sociale del Nord sta progressivamente e velocemente disgregandosi. La crisi sembra ormai senza uscita ed è esattamente in questo momento storico che la Commissione giuridica incaricata dalla Regione Veneto ha consegnato le proprie valutazioni in merito alla possibilità di un referendum consultivo che interpelli i veneti in merito al tema dell’indipendenza. I sei studiosi – costituzionalisti, amministrativisti, filosofi del diritto, professionisti del diritto positivo – hanno esaminato la questione da varie prospettive senza giungere una risposta condivisa, ma offrendo invece una varietà di valutazioni.
Va detto che quando ci si chiede se i veneti possono darsi istituzioni proprie e del tutto indipendenti (uscendo dalla Repubblica italiana), ci si sta confrontando con temi che almeno in parte esulano dalle conoscenze di un giurista positivo: sia egli un internazionalista o un costituzionalista. Nel momento in cui vi sono città e regioni che vedono scomparire una prosperità faticosamente costruita nel corso di decenni di duro lavoro, e per questo rivendicano il diritto a essere “padrone a casa propria”, è chiaro che c’è in gioco molto di più che non semplici questioni di dottrina o giurisprudenza. Per di più, quanti sostengono la battaglia veneta per l’autodeterminazione e immaginano un’Europa composta da piccole entità indipendenti (sottoposte a una forte concorrenza istituzionale), lo fanno in nome di principi che non possono essere ignorati, anche se certamente minano alla radice la moderna nozione di sovranità, che è stato il vero cardine dell’istituzione che ha dominato gli ultimi cinque secoli della storia d’Europa: lo Stato. Sullo sfondo delle considerazioni sviluppate dai giuristi veneti c’è allora lo scontro tra la libertà e la forza, tra le ragioni del voto e le pretese di apparati sostanzialmente autoritari che faticano a uscire di scena, nonostante la lunga scia di crimini che hanno tracciato nel corso della loro esistenza, distruggendo risorse e cancellando speranze.
Va detto: secessione e Stato moderno sono nozioni incompatibili, e questo per la semplice ragione che, nella loro astratta dogmatica, gli Stati si rappresentano come necessariamente unitari, salvo poi prendere atto che in varie circostanze hanno luogo disgregazioni e distacchi. Ma i processi indipendentisti hanno spesso successo de facto, anche se neppure sono pensabili de jure per chi pretenda di restare prigioniero delle categorie elaborate dalla giuspubblicista moderna. Questa scissione tra il dogma e la realtà è comunque solo l’ultima riprova del fatto che le nostre istituzioni pubbliche poggiano su una qualche teologia politica: su una mistica del potere senza la quale non potrebbero reggere. Quando l’attuale Costituzione parla della Repubblica italiana come di un’entità “una e indivisibile” è ben chiaro agli storici delle idee come quella formula sia di matrice giacobina e provenga, di conseguenza, da una cultura intollerante: che nei fatti non ha più vero diritto di cittadinanza all’interno del confronto pubblico. È la sopravvivenza di un passato già sconfitto. È quindi curioso che quelle tre parole vengono talora presentate come l’argomento decisivo contro ogni richiesta di autogoverno, come l’asso pigliatutto, come la prova provata che non vi sarebbe alcuno spazio per la minima discussione su ogni ipotesi d’indipendenza di una comunità. Il discorso sarebbe insomma chiuso ancor prima di aprirlo. Ovviamente non è così e per più di un motivo.
D’altra parte, è sufficiente domandarsi cosa ha portato il Veneto in Italia. Sul piano dei fatti, il Veneto è diventato italiano a seguito dell’esito della guerra austro-prussiana, ma dal punto di vista formale (giuridico) il Veneto è entrato a far parte del Regno d’Italia a seguito del voto popolare dell’ottobre del 1866. Sono i referendum, veri o fasulli che fossero, che hanno sancito la legalità dell’ingresso dell’annessione. Ma la logica ci impone di ritenere che se un voto ha unito, allo stesso modo un voto può dividere. D’altra parte, non è infatti ammissibile che il popolo possa, al tempo stesso, detenere il potere costituente e poi rinunciarvi definitivamente. Come non è lecito per un singolo darsi liberamente in schiavitù, analogamente non è possibile che un’intera popolazione possa consegnare se stessa e la propria discendenza (comprendendo in ciò anche quanti sono venuti a vivere in quel territorio successivamente) a un determinato ordinamento politico. Come alcuni giuristi della Commissione veneta hanno sottolineato, l’Italia non può sottoscrivere le norme internazionali sul diritto di autodeterminazione e alzare il dito – per fare qualche esempio – contro il Marocco per la situazione del Sahara occidentale, contro l’Azerbaigian per la situazione del Nagorno-Karabakh o contro la Nigeria per quello che riguarda il Biafra, senza che questo abbia conseguenze al proprio interno. Non possiamo esporre la bandiera del Tibet sui municipi della nostre città, contestando la politica di Pechino, e poi rifiutarci d’interpellare con il voto gli abitanti del Tirolo meridionale o di qualunque altra parte della Repubblica.
Per giunta, la questione al centro del confronto che ha visto protagonisti i “saggi” della Commissione è la possibilità, per la Regione, di consultare i veneti. C’è ancora, dunque, libertà di espressione e parola in Italia? È possibile per Luca Zaia e gli altri consiglieri veneti interpellare la propria popolazione, usando lo strumento del referendum consultivo? Rispondere “no” vorrebbe dire cancellare dal nostro ordinamento ogni principio di libertà e pluralismo. A ben guardare, lungi dal dirigersi verso logiche eversive e illegali le popolazioni venete chiedono solo al diritto di riscoprire il suo significato più autentico: quello di un ordine di regole che aiuta la convivenza, e non già l’ostacola.
Entro questa Europa che vede Scozia e Catalogna dirigersi verso un voto che potrebbe decidere la loro indipendenza, pure il Veneto sta insomma iniziando ad alzare la testa: e le conclusioni della Commissione sono un altro passo nella giusta direzione, dal momento che – per chi sappia leggere e comprendere – esse dicono che la consultazione si può fare. Perché oggi è il tempo di darsi istituzioni modeste e vicine, rispettose e liberali, chiamate a rispondere direttamente alle esigenze della persona e costrette a competere con altre realtà che sono al loro fianco. Il grande successo economico delle città indipendenti (da Singapore a Montecarlo) o delle piccole realtà regionali (dai cantoni svizzeri all’Estonia, dal Lussemburgo alla Slovacchia) sono la riprova di come gli Stati nazionali e di grandi dimensioni abbiano fatto il loro tempo. Non soltanto sono costruzioni artificiose che negano le libertà fondamentali. Essi sono anche intralci quasi insuperabili per quanti vogliano offrire una prospettiva ai propri figli e nipoti. Lasciamo allora il loro destino nei mani dei votanti: facciamo sì che sia un semplice voto a certificarne la sopravvivenza o, com’è ragionevole attendersi, la fine definitiva. 
di Carlo Lottieri

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