sabato 30 novembre 2013

Le imprese possono fallire, Monte dei Paschi no

Mentre va in scena il calvario delle Pmi, il presidente della banca di Siena Alessandro Profumo dice che bisogna scegliere fra ricapitalizzazione e nazionalizzazione: non gli passa per la mente che l'istituto possa chiudere. Mal che vada a salvarlo ci son sempre i contribuenti...
Non c’è tregua per le piccole imprese, i commercianti e le partite Iva: se, martoriati da tasse, burocrazia, cartelle esattoriali, ce la fanno a stare in piedi bene; altrimenti possono tranquillamente fallire. Ah dimenticavo, se scioperano ci rimettono di tasca propria. Per le grandi banche invece, specie se legate a doppio filo alla politica, i paracaduti sono infiniti.
Qualche tempo fa non si faceva altro che parlare di Monte Paschi Siena. Ora non se ne fa quasi più accenno. Due giorni fa Mps è tornata all’onore delle cronache finanziarie per il cda di martedì che ha deciso la ricapitalizzazione di tre miliardi della banca: una mossa favorisce i dieci istituti proprietari, guidati da Ubs, a scapito della Fondazione Monte Paschi, azionista di maggioranza relativa col 33,5% delle azioni. La governance attuale a guida Pd, responsabile degli scandali trapelati qualche mese fa, che aveva chiesto di rimandare l’aumento di capitale, per poter prima rafforzarsi e tenere il timone.
Durissimo il giudizio del sindaco di Siena, guarda caso Pd, Bruno Valentini riportato, ancora guarda caso, dal quotidiano La Repubblica che ne ha sostenuto la tesi: «Siena non può assistere inerme a questa sorta di colpo di stato interno in per cui la banca si libera di un proprietario non più assillante come un tempo. Mi domando se tutti i membri del cda Mps che rappresentano la fondazione hanno saputo servire gli interessi dei due enti». Chissà: noi piuttosto ci chiederemmo se è normale che un sindaco si preoccupi tanto delle vicende interne di un istituto finanziario, invece che del bene dei propri concittadini.
Ma il commento decisamente più surreale è quella arrivato dal presidente di Mps, Alessandro Profumo. Proprio lui, il milionario ex amministratore delegato di Unicredit (dal 1998 al 2010), rinviato a giudizio nel 2012 per una presunta maxi frode fiscale del valore di 245 milioni. Intervistato da Repubblica ha detto: «Ricapitalizzare l’azienda è l’unica strada per evitare la nazionalizzazione». Quell’opzione già tristemente avallata da due intellettuali liberali come Oscar Giannino e Michele Boldrin. La cosa sconvolgente è che Profumo – così come Valentini che ieri ha sollecitato l’intervento del governo – non prende nemmeno in considerazione la possibilità che la banca fallisca. Too big to fail, si diceva nell’America investita dalla grande crisi del 2007.
Alla fine dovrà essere sempre il piccolo a pagare gli errori dei grandi. Tre miliardi son tanti: per la legge di stabilità si son scannati per poche centinaia di milioni. Non vorremmo mai e poi mai vedere le vere attività produttive martoriate con altre imposte con l’obiettivo di salvare i pasticci finanziari dei soliti noti che non pagan mai.
di Matteo Borghi (L'Intraprendente)

venerdì 29 novembre 2013

Metti Cuperlo al Nord e guardalo mentre ci finisce

Gianni Cuperlo. Viso dai tratti decisi, una manciata di rughe d’espressione, un sorriso che un po’ non scordi e la pettinatura di chi ha sotto controllo anche il singolo capello. Non è uno spettinato, Cuperlo, in niente. Occhi di ghiaccio e nessun carisma. Gianni Cuperlo è uno che pare emanare statalismo, uno che sembra arrivare da un mondo differente, quello che non vuole abbandonare e che col 2013 non ha nessun collegamento, se non l’animo di alcuni irriducibili.
Trasuda nostalgia, lui che ha la certezza di detenere delle verità, presunzione che francamente fa paura masticata da chiunque. Il candidato alle primarie sinistrorse può dirsi la fotografia ufficiale del Pd, che annuncia rinnovamento e ripropone Finocchiaro e D’Alema e Veltroni e Bindi in ogni salsa possibile. L’apparato che indica Silvio Berluscono & Co. come vecchia politica ma che c’è da ben prima di Tangentopoli. Professano novità e purezza, due cose che si cuciono male a trent’anni di potere e passeggiate politici. Ecco, Cuperlo si dice volto nuovo, poco d’apparato. Che poi i big democratici lo appoggino in blocco pare essere più un caso che un processo naturale e inevitabile, se si ascolta lui. Sono bugie. Il Gianni è deputato piddino dal 2006, presidente del Centro studi del partito che vuol guidare e membro della sua direzione. In curriculum vanta l’esser stato segretario nazionale delle Federazione Giovanile Comunista Italiana, nonché della Sinistra Giovanile.
È stato cuore dirigenziale del Partito Democratico della Sinistra e, per non farsi mancare nulla, parte della segreteria nazionale dei DS. È un professore, cosa che dopo Monti ci spaventa ma, seriamente, è l’apparato. Risulta perciò ridicolo che in un’intervista video abbia ribadito che lui in politica è vergine, rispetto al suo competitor Matteo Renzi. Il coraggio sfacciato dei politici scafati, è quello che porta Gianni ad dichiarare l’indichiarabile. Lui che non una volta ha aperto alle imprese, agli imprenditori. Che non rilancia una politica economica liberale, o vagamente meno iniqua. Uno che, mettilo a guidare il Nord, e finisce il lavoro iniziato dai suoi colleghi, uccidendolo. La politica di Gianni Cuperlo, appoggiato da chi ha dichiarato sino ad oggi di disprezzare (o perlomeno guardare con sospetto) la borghesia (per non parlare dei ricchi, che si leggono mercato e denaro dalle nostre parti), non può discendente diretta del tassa e spendi. Niente taglia alla spesa pubblica, niente riforme sostanziali, allora no, non mettere un Cuperlo al Nord. Non metterlo neanche a Roma e neppure nel Pd.
di Federica Dato (L'Intraprendente)

giovedì 28 novembre 2013

La sacrosanta serrata degli imprenditori

In questo momento quasi seimila tra imprese, artigiani, commercianti e partite Iva incrociano le braccia, smettendo di produrre ricchezza e posti di lavoro. Il messaggio è diretto a Roma: o si cambia o vi mostriamo seriamente cos'è l'Italia senza noi. Niente
Saracinesche abbassate. Chiusi. Partite Iva, commercianti, piccole imprese e artigiani. Cinquemila e seicento uffici serrati, angoli produttivi blindati, morti per quattro ore. Lampadine spente, dipendenti e collaboratori a casa, stampanti a riposo. I computer che non si attivano, gli ordini che non partono, le vendite immobilizzate. Niente “fax, mail, telefoni”. Il mondo produttivo questa mattina è paralizzato per quattro lunghe ore. Possono sembrare poche. Signori, sono tantissime nella lingua di impresa. Sono l’ammasso di minuti che separa la ricchezza dal farsi reale, tangibile; le stesse che si traducono in perdita per il Paese e inefficienza. Nulla di più lontano da un imprenditore, la serrata. Per questo simbolo dirompente, urlo sordo impossibile da non ascoltare: «Basta!». Perché “Lavorare per noi stessi è un onore ma non basta per sopravvivere”, recita la locandina firmata da Imprese che resistono, nata proprio per tentare di arginare le prepotenze di uno Stato capace di esigere senza offrire nulla, se non ostacoli.
Quel «basta» Antonella Lattuada, uno dei volti dell’associazione, lo ribadisce mentre dice tutto con poche sillabe: «Abbiamo il supporto di sei associazioni e l’endorsement del Tea Party Italia ed è solo l’inizio». Sono stanchi, gli imprenditori, «stremati» e si riparte «eliminando l’Irap, subito e diminuendo la pressione fiscale». Perché mettere in «ginocchio noi significa mettere in ginocchio il Paese. I soldi non è vero che non ci sono, vengono sprecati. Allora ci fermiamo, perché oggi lavorare non produce profitto».
Lavorare non produce profitto. La pelle s’accappona. Lattuada non smette: «Lavorare in Italia non serve più a niente». E lo dice che si inizia con queste quattro ore, che si trasformeranno in ventiquattro e poi, iniquità estrema vuole, in una settimana di braccia incrociate. Quel che pensavamo di non vedere mai. E siamo con loro, per quanto vale. Siamo con chi ha tenuto in piedi una nazione, l’ha sfamata e ha accettato capo chino una rapina fiscale che ha dell’inverosimile e oggi si violenta chiudendo la porta. Perché per ognuna di quelle imprese abbassare la saracinesca significa spegnersi un po’ dentro, accoltellarsi per evitare di morire e siamo al punto del coraggio arrabbiato. «Un po’ di sana autocritica non fa male: per anni abbiamo pensato solo a lavorare, dodici ore al giorno, delegando la gestione del prodotto delle nostre fatiche (le tasse, è bene si inizi a chiamare le cose con il loro nome) a chi lo bruciava in nepotismi, malaffare, inefficienza. Adesso basta». E non conta se mentre le parli quest’imprenditrice è al volante, se l’hanno tamponata pochi minuti che la chiamassi, infila un argomento dopo l’altro, come chi sa che il domani deve afferrarlo da sé. Si arriva alle banche commerciali, «nate per sostenere lo sviluppo», ormai lontane dal loro primo scopo. «I soldi dei correntisti vengono spesi per comprare titoli marci» e l’accesso al credito viene negato.
di Federica Dato (L'Intraprendente)

Zaia: in Veneto i farmaci ospedalieri meno costosi d'Italia

Il Veneto è la Regione italiana che spende meno in assoluto per l’acquisto di farmaci ospedalieri rispetto alla popolazione assistita. Il riconoscimento viene dalla “Analisi territoriale comparativa nell’acquisto dei farmaci ospedalieri”, elaborata dall’Autorità Governativa per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture. 
Il Veneto precede l’Abruzzo ed il Piemonte e spende quasi tre volte di meno di Umbria, Lazio, Puglia e Campania.
Nelle conclusioni del rapporto, si legge che “le migliori performance sono state riscontrate per Veneto, Piemonte ed Abruzzo”, mentre le peggiori “si riscontrano in Puglia, Lazio ed Umbria. Anche i risultati della Campania non appaiono confortanti”. Le tre Regioni “virtuose” sono seguite da un “blocco centrale” composto da sei Regioni: Friuli, Toscana, Vale D’Aosta, Emilia Romagna, Liguria e Lombardia. In particolare, nello studio, sono stati selezionati i farmaci non coperti da brevetto (i “generici”) acquistati da almeno 11 delle 39 stazioni appaltanti selezionate.
“Questi sono dati ufficiali governativi appena resi noti – commenta il presidente del Veneto Luca Zaia –. dei quali andiamo orgogliosi e che dimostrano che qui si sta facendo dell’oculatezza l’arma totale per combattere gli sprechi in sanità: i numeri elencati dal rapporto dovrebbero far arrossire chi spendere circa tre volte tanto”.
“Ecco l’ennesimo esempio di costo standard – prosegue Zaia – che il Veneto pone all’attenzione del Commissario Cottarelli e del mondo istituzionale nazionale. In questi anni (dal 2011) nei quali tanti hanno molto parlato e poco o nulla fatto – aggiunge Zaia – il Veneto ha lavorato giorno per giorno, studiando dove potevano esserci degli sprechi e tagliandoli senza remore. Il risultato è sotto gli occhi di tutti anche in un settore di grande spesa generale come la farmaceutica ospedaliera”.
“Chiedo che i risultati di questo inconfutabile studio – dice Zaia – siano inseriti tra quelli che determineranno i costi standard, perché ormai siamo ai calci di rigore ed è ora di smetterla con la mala pratica secondo la quale sempre e comunque il virtuoso paga per lo sprecone. Se vogliono spendere di più facciano pure, ma l’eccesso rispetto al costo standard dovrà essere coperto non con fondi nazionali, ma con la fiscalità locale, della quale gli amministratori dovranno rendere conto ai cittadini”.
“Non smetterò mai di ricordare – prosegue il governatore – che se in tutta Italia una siringa costasse 6 centesimi come in Veneto o un pasto 6 – 7 euro contro vette di 50-60 e via dicendo, lo Stato italiano risparmierebbe circa 30 miliardi l’anno e oggi non si sarebbe costretti a dibattere focosamente su quanti euro si risparmiano o si dovranno pagare in più in forza delle varie tasse dalle sigle impronunciabili che escono dalla legge di stabilita”.
Ringrazio l’assessore alla sanità Luca Coletto, il segretario Domenico Mantoan  – conclude Zaia – e tutti i tecnici del nostro settore farmaceutico per il lavoro, faticoso e quotidiano, che ci porta a segnare record su record in sanità”.

mercoledì 27 novembre 2013

Io, ex toga Md vi racconto come i giudici di sinistra sono diventati un partito

Negli anni Settanta i movimenti eversivi rossi trovarono un appoggio nella magistratura. Così i pm avrebbero fatto la guerra alla borghesia.
La magistratura non è più un ordine costituzionalmente riconosciuto, bensì un disordine legato soltanto dalla velleitaria individuazione di quello che appare di volta in volta il nemico comune da combattere. 
Magistratura democratica nacque nel 1964, coagulando intorno a sé magistrati genericamente «di sinistra» o «progressisti»: i suoi aderenti erano particolarmente motivati dall'affermazione della piena autonomia ed indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto al potere politico ed alla struttura gerarchica dei giudici. Il 30 novembre 1969, tuttavia, la formazione si spaccò: ne uscirono tutte le componenti moderate, accusando la frazione di sinistra di essere troppo sbilanciata a favore dei nuovi movimenti operai e studenteschi sorti nel '68. L'occasione della rottura fu rappresentata dal «caso Tolin». Francesco Tolin era direttore del periodico Potere Operaio, che il 30 ottobre 69 pubblicò un articolo dal titolo Sì alla violenza operaia, che portò successivamente alla condanna del direttore a 17 mesi di carcere senza condizionale. Una parte di Md si schierò in difesa dell'articolo contro i reati di opinione, e successivamente criticò con toni molto duri la sentenza di condanna: atteggiamenti che non furono tollerati dalla parte moderata di quel raggruppamento, che diede successivamente vita alla corrente «Impegno Costituzionale».
Questi ultimi, dunque, rimasero fermamente ancorati alle regole dello Stato di diritto, pur rivendicando ai giudici il potere-dovere di applicare integralmente i dettami della Carta Costituzionale, e la piena autonomia ed indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto al potere politico, senza mai uscire dai canoni tradizionali della legge: certezza del diritto, generalità ed astrattezza della norma da applicare al caso concreto. Solo in Italia i movimenti eversivi di estrema sinistra trovarono un appoggio nella più conservatrice delle corporazioni: la magistratura. Fu un caso? Certamente no, e in seguito se ne spiegheranno le ragioni. Alla neonata Md era necessario fornire un background politico che le garantisse una forte connotazione di sinistra (anzi, di estrema sinistra): per questo non c'erano eccessivi problemi, in quanto la maggior parte delle teste pensanti di quel gruppo si erano formate - negli anni '67/74 - nei grandi calderoni politico-ideologici che erano in quel periodo le Università, e trovavano un forte supporto nei movimenti antagonisti emergenti. Fu Luigi Ferrajoli, mente finissima e giurista eccellente, poi uscito dalla magistratura per abbracciare la carriera accademica) il cuore pulsante dell'elaborazione politica della nuova Md, che vedeva nei gruppuscoli extraparlamentari di sinistra i portatori del «sol dell'avvenire», i quali avrebbero inevitabilmente abbattuto lo Stato borghese e le sue disuguaglianze di classe. Con il documento Per una strategia politica di Magistratura Democratica Ferrajoli - insieme a Senese ed Accattatis - presentò una relazione al congresso della nuova Md tenutosi a Roma il 3 dicembre 1971, in cui la piattaforma politica del raggruppamento definiva la «giustizia borghese come giustizia di classe» e la stessa Md «come componente del movimento di classe», che avrebbe dovuto far ricorso alle «contraddizioni interne dell'ordinamento: la giurisprudenza alternativa consiste nell'applicare fino alle loro estreme conseguenze i principi eversivi dell'apparato normativo borghese».
Il giurista Tarello, nella sua relazione, concludeva l'intervento in termini estremamente preoccupati, affermando che «...questo tipo di analisi politica porta a favorire non una vera indipendenza ma piuttosto una dipendenza e un controllo della magistratura». Nessuno, allora e per molti anni a venire, colse appieno il pericolo (e il segnale) che poteva derivare dalle teorizzazioni di Ferrajoli e del gruppo toscano, e dalla critica aspra di Tarello: nessuno, tranne i membri di Md più vicini al Pci e - molto tempo dopo - i massimi dirigenti di questo partito. Una risposta alla strategia politica messa in campo dai giudici di estrema sinistra fu data da Domenico Pulitanò - giudice di Milano notoriamente legato all'epoca al Pci: «La prassi dei magistrati democratici si pone e vuole porsi come alternativa non già ai valori democratico-borghesi (il che rischierebbe di portarci oltre la legalità) ma alle loro deformazioni autoritarie nella giurisprudenza corrente. Si può definire un “uso alternativo del diritto”? Il problema è solo terminologico... L'uso alternativo del diritto, là dove praticabile, è per noi un problema politico prima che teorico, e la discussione metodologica non deve far perdere di vista il fine politico». Non servono parole ulteriori per chiarire quale differenza abissale di prospettive vi fosse tra l'estrema sinistra e la sinistra moderata di Md: l'uso alternativo del diritto, infatti, non era per nulla un «problema terminologico». Intorno ad esso si giocava una scelta di campo di dimensioni storiche, perché, a memoria, per la prima volta una parte consistente (e soprattutto ben attrezzata culturalmente) della burocrazia statale si schierava nella lotta di classe, sentendosene pienamente partecipe. Dopo di allora, la frazione filo-Pci di Md praticò una sorta di entrismo: né aderire né sabotare, ma restare in attesa, secondo il vecchio principio leninista pas d'ennemi à gauche («Neanche un nemico a sinistra») nella sua accezione meno truculenta e stalinista. La magistratura milanese - dove pure la frazione di estrema sinistra di Md era la più forte d'Italia - si adeguò pienamente a questa tattica.
di Sergio d'Angelo (Giornale)

martedì 26 novembre 2013

La Cgil apre uno sportello a Tunisi. Salvini: "Assurdo, presentiamo un'interrogazione parlamentare"

Il sindacato rosso inaugura il servizio orientamento per chi vuole immigrare in Italia. E il Carroccio insorge...
"Manovali del Maghreb, ecco come venire a lavorare nei campi italiani". La Cgil apre uno sportello a Tunisi per fornire ai lavoratori del nord Africa tutte le indicazioni sul come immigrare regolarmente nel Belpaese e lavorare nel settore primario. E la Lega Nord, in tutta risposta, prepara un'interrogazione parlamentare. L'iniziativa del sindacato, presentata il 21 novembre e inaugurata il 25 da Inca (la rete dei patronati rossi all'estero) e Flai (la federazione dei lavoratori Agro-Industria), nasce per "combattere le illegalità e favorire una migrazione consapevole - si legge in una nota del sindacato -; e si rivolge " ai lavoratori del Nord Africa che vogliono venire in Italia per trovare un'occupazione". Ma Matteo Salvini, europarlamentare del Carroccio e candidato (forte) alla segreteria del partito, non ci vede giusto. "Voglio sapere quanto costa alla collettività questa iniziativa - attacca -, perché i sindacati percepiscono contributi pubblici e voglio sapere come vengono spesi questi soldi. Ma, seppure l'operazione fosse a costo zero - continua -, è assurdo in un momento in cui l'agricoltura è in crisi incoraggiare l'arrivo di nuovi immigrati".
Tra referendum e Bossi-Fini - "Mi chiedo come la pensano di questa iniziativa gli iscritti alla Cgil che non hanno un lavoro - chiede Salvini -. So però che quelli che hanno anche la tessera della Lega sono incazzatissimi". Ma il servizio della Cgil non è un modo per applicare al meglio la legge Bossi-Fini, che vuole che gli immigrati arrivino in Italia con un contratto di lavoro? "La Bossi-Fini è una legge varata 10 anni fa, quando non c'era la crisi" risponde il delfino di Maroni. "Oggi la situazione è cambiata, abbiamo milioni di disoccupati. In Italia non c'è spazio per un tunisino in più". Salvini (che insinua: "Ho l'impressione che la Cgil, più che altro, vada a cercare nuovi tesserati in Africa"), la giura ai sindacati: "Stiamo preparando un referendum sul tema - annuncia -. Sarà pronto per il 2014, vogliamo trasparenza sui bilanci delle confederazioni dei lavoratori".
Macché sprechi - Da Corso d'Italia replicano che "il nuovo sportello non implica nuove spese. La sede Inca di Tunisi è storica e non fa che offrire un servizio in più". Forniamo assistenza a lavoratori che rischiano di cadere nella rete dei nuovi trafficanti di schiavi, è il refrain che arriva dai corridoi della Cgil. "E poi ci rivolgiamo anche a chi ha lavorato in Italia e ora è rientrato in Tunisia - spiegano - e ai nostri connazionali, non sono pochi, che vivono là".
da Libero Quotidiano

Immigrati, i Cie messi in crisi da rivolte, danni, cause legali. E i clandestini restano in Italia

Cie chiusi per danneggiamenti e capienza ridotta: il Viminale non riesce a far fronte all'espulsione dei clandestini che ogni giorno invadono il Belpaese.
Il Viminale non riesce a far fronte all'espulsione dei clandestini che ogni giorno invadono il Belpaese. 
Dei dodici istituiti, ne sono stati chiusi sei a causa dei danneggiamenti e delle rivolte che, periodicamente, vengono scatenate per attirare l'attenzione dei media. Non solo. Secondo quanto si apprende dai dati pubblicati dal ministero dell'Interno, la capienza dei Cie è stata ridotta almeno in quattro dei sei istituti rimasti aperti.
Mentre la capienza complessiva delle strutture è di 1.851 posti, la ricettività riscontrata dal Viminale è di sole 749 persone. Ancora meno sono gli ospiti attualmente presenti: stando ai dati pervenuti a qualche giorno fa, i clandestini presenti sono 564. L’ultimo centro a chiudere i battenti è stato quello di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, lo scorso 6 novembre. In precedenza erano stati sbarrati i Cie di Brindisi, Bologna, Crotone, Modena e Trapani Vulpitta. Per tutti l’indicazione ufficiale della chiusura è attribuita a "lavori straordinari di manutenzione". La capienza è stata ridotta nel centro di Bari, dove i posti sono passati da 196 a 112 in seguito ad una class action presentata da alcuni studi legali. Ci sono meno posti anche a Milano, dove si è passati da 132 a 28, nella Capitale, dove la riduzione è meno pesante (360 a 222), e a Torino che è scesa da 210 a 98.
di Sergio Rame (Giornale)

lunedì 25 novembre 2013

La Lega Nord con Massimo Bitonci attacca i parlamentari veneti e Santini (Pd): "traditori"

"Grazie ai traditori del Veneto oggi è stato bocciato in commissione il finanziamento che avrebbe reso possibile il referendum per l'autodeterminazione della nostra terra. Evidentemente per i senatori veneti, a cominciare dal relatore Santini di Marostica, ai quali avevo chiesto di sottoscrivere il mio emendamento, dare 10 milioni alla minoranza slovena in Italia è più importante che tutelare il Popolo Veneto che da anni chiede la possibilità di decidere del suo futuro.
Anche dal Governo stessa insensibilità: il sottosegretario veneziano Baretta non ci ha pensato un attimo a dare parere sfavorevole al mio emendamento. Il nostro grande Popolo Veneto sappia la verità: i vari esponenti del centrodestra e centrosinistra che partecipano alle manifestazioni in favore dell'autodeterminazione in realtà sono solo dei traditori che nelle aule parlamentari votano contro questa possibilità".
Lo dichiara Massimo Bitonci, capogruppo della Lega Nord al Senato, in riferimento all'emendamento a sua firma sul referendum per l'autodeterminazione del Veneto bocciato oggi in commissione bilancio che sta esaminando la legge di stabilità.
On. Massimo Bitonci

La stangata IMU, aumenti record per capannoni e negozi

Non c'è pace per le imprese: aggravio medio del 62% rispetto all'Ici 2011. Ecco per chi cresceranno gli importi.
Nel dubbio, tasso. I Comuni sono alle prese con il giallo dell'Imu sulla prima casa (dal 2014 non ci sarà più, ma per il 2013 è ancora in ballo il pagamento del saldo) e visto che il tempo sta per scadere e le casse sono sempre più vuote non resta che una soluzione: alzare le aliquote e stangare, a raffica, seconde case, appartamenti sfitti o in affitto, negozi, capannoni. Una sfilza di aumenti, da Nord a Sud, che avrà un effetto certo: massacrare risparmi e ripresa. 
Aumenti record per le imprese - I più colpiti, denuncia il Sole 24 Ore, saranno le imprese. Il caro-Imu riguarderà infatti principalmente gli immobili accatastati nel Gruppo D: capannoni, cinema, alberghi, cliniche private, impianti industriali. E poi immobili affini, come negozi, botteghe, laboratori artigiani, magazzini, uffici. Sarà un bagno di sangue, perché le aliquote medie passeranno dallo 0,76% del 2012 allo 0,8 del 2013 (in realtà molti Comuni si sono spinti fino allo 0,96, valore massimo). In più, c'è da considerare l'incremento da 60 a 65 del moltiplicatore per calcolare il valore catastale dell'immobile, che aumenta la base tassabile. Risultato: l'Imu nel 2014 costerà il 14% in più rispetto all'anno scorso e il 62,5% in più rispetto al 2011, ultimo anno dell'Ici. Il quotidiano di Confindustria fa un esempio: per un piccolo capannone con rendita catastale di 10mila euro, si pagheranno in media 672 euro in più rispetto al 2012 e 2.100 euro in più rispetto al 2011.
Soldi ai Comuni - La raffica di aumenti ha una spiegazione anche tecnica: la parte eccedente allo 0,76% dell'aliquota finirà direttamente non all'Erario ma nelle casse dei Comuni: aumentando l'aliquota, dunque, permetterà agli Enti locali di incassare denaro fresco e subito. Le scadenze poi non aiutano: il saldo è da versare entro il 16 dicembre, pochi giorni dopo la scadenza prorogata al 10 dicembre per gli acconti di Ires e Irap. Una mazzata sulle imprese a cui il possibile sgravio allo studio del governo sulla deducibilità del 20% dell'Imu 2013 da Ires e Irap non darà sollievo. 
da Libero Quotidiano.

domenica 24 novembre 2013

Veneto Decida, finalmente gli indipendentisti fanno squadra

Via le bandiere di partito, da oggi gli indipendentisti parlano una sola lingua: Veneto Decida. Un comitato pro referendum, nato a luglio ma formalizzatosi ieri a Grisignano, che raccoglie dentro di sé le anime storiche del sentimento indipendentista veneto: gli acerrimi nemici Indipendenza Veneta e Veneto Stato, ma anche Futuro Popolare Veneto di Stefano Valdegamberi, Veneto Stato Europa, Europa Veneta, Liga Veneta Repubblica. E ancora le organizzazioni storico culturali come Raixe Venete e la Milizia Veneta.
«Un passo indietro di tutti per uno comune verso la democrazia» dice Alessio Morosin, tra i fondatori del comitato. Obiettivo: portare al voto del consiglio regionale del Veneto la proposta di legge 342 per il referendum d’indipendenza. Proposta rimandata in commissione dai consiglieri pidiellini che han poi presentato una contro-proposta: apertura del dialogo con Roma per l’autonomia. Un’idea che il comitato boccia all’unisono. Lo dice per tutti l’avvocato Luca Azzano Cantarutti, presidente di Indipendenza Veneta e già membro della commissione giuridica istituita da Zaia: «Parlare di referendum per l’autonomia non è solo un modo per sviare l’attenzione sul tema dell’indipendenza, ma anche una perdita di tempo: la Corte Costituzionale, nel 2000, ha dichiarato l’impossibilità di modifica diretta dell’articolo 116 della Carta (per intenderci quello che riconosce le regioni a statuto speciale). Sentenza Mezzanotte – dice Cantarutti – dal nome del suo relatore».
Indipendenza e solo indipendenza, quindi. E senza politica: «Il comitato ha un suo simbolo, ma non è chiuso all’interno di nessun cerchio – spiega Morosin -. Vogliamo esser chiari: non ci interessano le europee né politiche, qui si parla solo del diritto di un popolo di scegliere se diventare indipendente o meno». Una visione che non solo ha portato ad unire i simboli indipendentisti intorno ad un tavolo (tanti i precedenti tentativi: I Veneti, Forum dei Veneti, Casa dei Veneti etc), ma che ha raccolto anche il favore – in breve tempo – di oltre 130 comuni e due province. Segno tangibile che qualcosa, in Veneto, sta cambiando. A conferma è arrivato l’invito alla conferenza organizzata dall’associazione Apindustria Vicenza sul tema “Delocalizzazione o indipendenza”, cui parteciperanno come relatori molti aderenti del comitato come Valdegamberi: «Non è stata una nostra iniziativa – chiarisce lui – ma una volontà specifica dei giovani industriali di Vicenza di dibattere sul tema». «L’ulteriore conferma che la questione è più calda che mai – aggiungono dal comitato – fino a qualche anno fa ci saremmo sognati un’iniziativa del genere».
E che il tema sia scottante lo chiariscono i sondaggi, che segnano un favore verso l’indipendenza mai inferiore al 60%. Dati che certamente iunfluenzano la politica veneta, oggi puzzle confuso su una scacchiera che lentamente prende forma. E che il governatore seguirebbe da vicino. Morosin esclude la possibilità che il comitato guardi alle prossime regionali («Spero signorina che lei sia andata a votare nel 2010 – mi risponde – perché la prossima volta che tornerà alle urne il sigillo sulla scheda sarà quello della Repubblica Veneta»), ma che non può escludere l’inverso: l’attenzione di Zaia per il comitato, per le prossime regionali. E infatti il suo nome viene ufficialmente presentato tra i sostenitori di Veneto Decida: «A titolo personale» chiariscono i soci, «ma non fondatore» ribattono dalla Regione. La verità è a verbale, ma non è tanto importante quanto il risultato di un’eventuale convergenza tra il neonato comitato e il partito leghista a guida trevigiana. Quest’ultimo il riferimento istituzionale necessario per paragonare il percorso Veneto a quello di Scozia, Catalunya, Montenegro o Fiandre. Il primo, invece, il “contenitore anche elettorale” di riferimento per il popolo indipendentista. Partitico no, ma di scopo si. Per una nuova politica in un nuovo Stato.
di Francesca Carrarini (Intraprendente)

venerdì 22 novembre 2013

Scippate le vittime di mafia: i fondi vanno ai clandestini

Nella manovrina spunta l'emendamento che "smonta" la Bossi-Fini sull'immigrazione.
Venghino siori al gioco delle tre carte di Enrico Letta. Che toglie soldi alle vittime della mafia per darli agli immigrati. 
Che trasforma il rimpatrio in accoglienza. Che svuota di fatto la legge Bossi-Fini. Il tutto, come sempre accade, nelle pieghe di un provvedimento omnibus che monta il Telepass: attraversa i caselli dell'iter parlamentare senza nemmeno rallentare. Il disegno di legge è quello per la conversione in legge del dl 120 del 15 ottobre scorso, presentato dal premier Letta e dai ministri Alfano, Saccomanni e Delrio. La cosiddetta «manovrina», che ieri è stata approvata con 270 sì, 140 no e 8 astenuti dall'aula di Montecitorio e passerà ora all'esame del Senato. Tra i provvedimenti contenuti, quelli in materia di immigrazione. L'articolo 1, in particolare, destina 210 milioni di euro a questa emergenza: di essi, 20 servono a incrementare per l'anno 2013 il Fondo nazionale per l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati creato lo scorso anno; e gli altri 190 servono per lo start up di un fondo istituito presso il ministero dell'Interno «per far fronte alle problematiche derivanti dall'eccezionale afflusso di stranieri sul territorio nazionale». Soldi. Tanti soldi. Sottratti ad altri utilizzi. Per dire: 90 milioni arrivano dal Fondo rimpatri degli stranieri, finanziato per metà dai permessi di soggiorno e per l'altra metà dai soldi comunitari per il Fondo europeo per i rimpatri. In pratica si levano i soldi dalla casella «torna a casa» e si mettono alla casella «resta qui, ci pensiamo noi». Una scelta che ha provocato la reazione solitaria della Lega, di Fdi e di parte di Forza Italia. «Pd e Ncd, togliendo fondi al ministero dell'Interno, di fatto cancellano il reato di clandestinità: senza soldi i respingimenti non si fanno», s'indigna su facebook Gianluca Pini, vicepresidente del gruppo Lega Nord a Montecitorio. E gli altri 120 milioni? Se 70 milioni sono reperiti «mediante il versamento da parte dell'Inps dei proventi derivanti dal pagamento del contributo forfettario da parte dei datori di lavoro che presentano la dichiarazione di emersione del lavoro irregolare», gli ultimi 50 sono la vera pietra dello scandalo. Sono infatti sottratti al Fondi di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell'usura istituito nel 2010. In pratica il governo Letta, complice la maggioranza parlamentare, toglie alle vittime di Cosa Nostra che hanno avuto il non banale coraggio di denunciare i loro aguzzini per dare ai clandestini. Una scelta da Robin Hood sotto psicofarmaci, che forse qualcuno ci spiegherà. Non finisce qui. Fanno discutere anche i 20 milioni supplementari per l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, che hanno avuto il via libera della Camera il giorno dopo la giornata per l'infanzia, nel corso della quale da più parti è stato sottolineato il crescente disagio anche materiale dei bambini italiani. Il Fondo per le politiche sociali è stato negli ultimi anni costantemente definanziato e anche il Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza, foraggiato annualmente dalla legge di Stabilità, ha visto ridurre la sua «paghetta» dai 40 milioni stanziati per il 2012 ai 28,7 che dovrebbero arrivare per il 2014. Intendiamoci: non si dice qui che i bambini stranieri tolgono soldi a quelli italiani, anche perché le due partite sono differenti. Però la concomitanza di questi due dati ci dà molto da riflettere.
di Andrea Cuomo (Giornale)

giovedì 21 novembre 2013

La figuraccia del Pd. Voleva la testa del ministro alla fine invece lo ha salvato

Il partito si piega al diktat di Letta (e Napolitano) e vota compatto contro la sfiducia. E Renzi, che tanto si era speso contro il Guardasigilli, finisce ko.
Chi esce con le ossa rotte dal nuovo round sul Guardasigilli sembra quindi proprio il Pd, già alle prese con una lacerante - anche se ormai già ampiamente decisa negli esiti - corsa alla segreteria, e ora schiacciato anche dal diktat di Letta, sostenuto e alimentato da Napolitano: sfiducia alla Cancellieri significa sfiducia a me e al mio governo.
E a niente sono valsi i tentativi dei candidati alla segreteria di fare a gara a mostrarsi più intransigenti sul chiacchierato ministro e sinceramente stanchi del governo delle larghe intese. La paura di azzoppare un esecutivo  che si regge su una maggioranza così fluida e trovarsi di fronte a un rimpasto che avrebbe comportato morti e feriti ha prevalso su tutto.
Il primo a prendersela in saccoccia è stato  Matteo Renzi, la cui opera di logoramento del governo Letta segna un altro stop. Anche se forse è una sconfitta solo apparente, visto che, in parte, la vicenda ha mostrato quanto sia “innaturale”, e quindi criticabile, un esecutivo guidato da un premier di centrosinistra costretto a fare da scudo a un ministro voluto dal centrodestra e irrimediabilmente compromesso (le telefonate questo lo dicono chiaramente) con l’impresentabile Salvatore Ligresti e la sua famiglia. E la pubblicazione, subito dopo il voto, della deposizione di don Salvatore che parla apertamente di aiuti alla Cancellieri tramite Silvio Berlusconi, non fanno che rafforzare questa tesi.
Del resto, ha rimediato una brutta figura anche il segretario Guglielmo Epifani, costretto a un’acrobazia quasi comica: ha chiesto in Aula che il ministro conceda a «chiunque di poterle fare una telefonata e avere una risposta ai propri problemi». Una richiesta che il ministro ha “parato” ipotizzando l’istituzione, altrettanto comica, di un numero verde per i detenuti.
Al numero uno democratico non è restato che prendersela con i grillini, che hanno presentato la mozione di sfiducia e animato l’Aula con una rumorosa protesta: «Vedo un uso del populismo molto sgangherato, ma vorrei ricordare al Movimento 5 Stelle è che a furia di urlare e mettere cartelli si finisce per non prendere neanche un voto».
Le cattive notizie per il Pd non sono poi finite in Aula, visto che da Salerno è arrivato un avviso di garanzia per Vincenzo De Luca, sindaco della città campana e viceministro ai Trasporti. Il provvedimento della Procura salernitana ha coinvolto, oltre De Luca, altre 30 persone, e riguarda la variante al Piano Urbanistico adottata il 16 marzo 2009 che consentiva l’acquisizione delle aree demaniali per la costruzione del “Crescent”, l’imponente edificio sul lungomare della città campana, il cui cantiere è stato messo sotto sequestro.
Il ministro Cancellieri ha salvato il posto ma il Pd rischia di andare in pezzi. Il voto del gruppo democratico alla Camera sulla fiducia al ministro è stato infatti granitico ma le spaccature interne sono arrivate a un punto critico. Con addirittura un candidato alla segreteria, Pippo Civati, che dà dello «stronzo» a un rivale, Gianni Cuperlo.
Luca Tavecchio (La Padania)

mercoledì 20 novembre 2013

Omicidio stradale e femminicidio. Erika Stefani: ecco le proposte della Lega Nord

“L'attività del Governo su un tema così importante e grave come quello degli incidenti stradali e la tutela dei cittadini rientra nel solco della tradizione politica italiana. Si agisce sempre a colpi di decreti legge, in regime di emergenza, dando risposte caratterizzate da superficialità e faciloneria.
L'iter del progetto di legge per l'istituzione dell'omicidio stradale, presentato dalla Lega, deve riprendere e passare attraverso la discussione e la votazione dei numerosi emendamenti pensati per appesantire le pene dei trasgressori del Codice della Strada e soprattutto per colpire chi causa incidenti. Secondo il calendario dei lavori, andrà in discussione alla Camera dei deputati in commissione trasporti già a dicembre. Auspichiamo che gli altri gruppi accolgano la nostra proposta: se l'esecutivo delle larghe intese è incapace di dare risposte definitive alla questione, sarà compito della Lega assicurare i giusti strumenti ai giudici che ogni giorno devono valutare la posizione dei criminali che, coscientemente, finiscono per alimentare una strage infinita. Noi stiamo dalla parte delle vittime e delle associazioni che ne difendono i diritti”.
“Le dichiarazioni di una vittima di violenze domestiche di Schio spiegano molto più delle analisi sociologiche e del computo dei reati quanto sia importante che la legge intervenga. A volte, nello stesso ambiente familiare, così come nella cerchia degli amici o addirittura negli ambienti cattolici, si cerca sempre di sminuire il problema, di ridurre episodi di violenza a casi isolati. Noi diciamo basta a questo atteggiamento. Il diritto fa cultura e se manca la cultura del rispetto della donna, è giusto intervenire con leggi ad hoc che educhino tanto le vittime, quanto chi queste hanno attorno, a denunciare le violenze subite, sapendosi tutelate e non abbandonate alla mercé di qualche arrogante aguzzino. Massima severità, certezza della pena e protezione per chi denuncia. Questi sono i cardini attorno ai quali va impostata una nuova legislazione sul femminicidio e sulla violenza domestica”.
Lo dichiara la senatrice vicentina della Lega Nord Erika Stefani.

martedì 19 novembre 2013

Marano Vicentino. IMU seconda casa. Pretto: ‘Gratuita se in comodato d’uso a parenti’

‘Se la seconda casa è concessa in comodato d’uso a titolo gratuito ad un parente di primo grado deve essere equiparata alla prima casa e quindi deve rimanere gratuita’. 
E’ quanto chiede Erik Umberto Pretto a nome del suo gruppo consiliare ‘Noi di Marano’ con una mozione al sindaco Piera Moro e al presidente del Consiglio.
Il 30 novembre scade il termine per la deliberazione del bilancio di previsione e quindi oltre tale data non sarà possibile fare eventuali variazioni per quanto riguarda le aliquote Imu.
‘Diversamente da quanto avveniva con l’Ici – spiega Pretto nella mozione – l’abitazione non principale concessa in comodato d’uso gratuito ai familiari è ad oggi ascrivibile alle seconde abitazioni così che il concedente comodante deve considerare il fabbricato come una residenza secondaria con le dovute penalizzanti conseguenze. Ad essa va quindi applicata l’aliquota prevista dai Comuni per le seconde abitazioni senza che vi sia la possibilità di ottenere un’aliquota agevolata o ridotta’.
Secondo Pretto la norma vigente ha rappresentato un pesante aggravio per le giovani famiglie che vivono nella casa concessa in uso gratuito dai propri genitori. ‘Nel decreto legge del provvedimento – spiega Pretto – c’è un articolo che fa riferimento alla seconda rata dell’Imu dell’anno 2013 e spiega che i Comuni possono equiparare le abitazioni non di lusso concesse in comodato ai parenti in linea retta entro il primo grado all’abitazione principale, se vengono utilizzate in questo modo, e a ciascun comune spetta la definizione di criteri e modalità per l’applicazione dell’agevolazione. Questa riduzione dell’introito comunale sarà anche tenuto in considerazione dal Ministero. Lo sgravio fiscale che in questo modo sarebbe concesso ai cittadini – attuale.
A.Bia (Thieneonline)

lunedì 18 novembre 2013

I LOVE FOIBA : ecco le magliette dei partigiani 2.0 . Vergogna!

Eccoliqua. I democratici. Gli antifascisti che insegnano agli altri il significato ed il valore della parola libertà. Benissimo. Bravi. Meglio ancora se radunati tutti attorno ad una manifestazione, in quel di Albano laziale, organizzata contro il defunto criminale nazista Priebke. Loro, i manifestanti, appartenenti alle sempiterne sigle del bene, fra le quali quella dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani), nella foga di democrazia e tolleranza che anima la loro azione, hanno pensato bene di sfoggiare una maglietta che ben rappresenta la cifra morale ed intellettuale del loro pensiero: “I love Foiba”, intese non come cavità carsiche, ma quali luoghi in qui furono sterminati migliaia di italiani innocenti per mano degli amici (loro), i colleghi partigiani di Tito. Fatti codificati dalla storia e riconosciuti dallo Stato italiano come una delle pagine più tetre di questo nostro strano Paese. Un Paese nel quale chi protesta contro un cadavere simbolo di un crimine compiuto nella seconda guerra mondiale può fregiarsi contemporaneamente di un altro simbolo, che rappresenta un crimine altrettanto pesante sottaciuto per decenni, ammesso che sia possibile bilanciare in maniera ragionieristica morte e sofferenza. Per la cronaca accanto a questi partigiani 2.0 inneggianti alle foibe c’erano anche le istituzioni locali e un parlamentare di Sel, il partito di Vendola, che chissà in quale “narrazione” collocherebbe questa brillante pagina di cronaca. Il tutto naturalmente è stato sedato dai media, tradizionalmente più predisposti a cazziare le derive provenienti da destra che quelle di cui si fanno interpreti questi nuovi partigiani. ( solo QELSI ha fin’ora riportato la notizia).
Infondo che sarà mai, sono solo kompagni che sbagliano…
da Il Bollettino di Trieste.

Gli ultrà dell'odio: per attaccare Priebke esaltano le Foibe

Durante un corteo ad Albano Laziale spunta una maglietta che ineggia alle foibe. E scoppia la polemica.
Siamo il Paese dei paradossi. E, soprattutto, degli ultrà dell'odio. C'è una foto che da qualche giorno rimbalza tra i vari siti online.
È un'istantanea scattata qualche settimana fa durante un corteo ad Albano Laziale per l'anniversario della caduta del muro di Berlino. Occhio, perché è il contesto che fa la differenza. Albano Laziale era il luogo scelto per le esequie, poi saltate, dell'ex Ss Erich Priebke. I tafferugli, i calci alla bara e il feretro in fuga verso destinazioni ignote, per evitare altri tumulti. Sono le cronache di un Paese che non riesce a far pace neppure con la storia. Figuriamoci con la quotidianità. Torniamo all'immagine. Al corteo del nove novembre partecipano anche antagonisti ed esponenti dei centri sociali che cercano di deviare la manifestazione verso la sede dei padri lefevbriani, rei di aver ospitato il cadavere di Priebke. Srotolano i soliti striscioni contro il boia delle Ardeatine e, a corredo, compare una maglietta con la scritta "I love Foiba". Uno schiaffo alla decenza e al buonsenso. Come si può attaccare un assassino (Priebke) esaltando allo stesso tempo altri assassini (gli infoibatori)? Un cortocircuito che smaschera un vizio: quell'idea strisciante che dalle nostre parti ci siano ancora morti di serie A e morti di serie B. Vittime che si possono ricordare e martiri che non si possono neppure nominare. Stragi da relegare - giustamente - nelle cantine della vergogna e altre che possono essere elevate a simbolo. Perché in questa macabra Borsa dei morti, quelli precipitati dai comunisti nel cuore del Nordest valgono meno di tutti gli altri. Priebke è un mostro, ma i tanti Priebke di Tito, invece, sono buoni per essere idolatrati. E l'oblio della memoria aumenta la mole della tragedia.
di Francesco Maria Del Vigo (Giornale)

Mara Bizzotto. La prostituzione va regolamentata in maniera uniforme in tutta l'Unione Europea.

La prostituzione va regolamentata in maniera uniforme in tutta l'Unione Europea. Riaprire le case chiuse in apposite aree o quartieri, secondo precisi protocolli medico sanitari, e tassare la prostituzione come una qualunque forma di lavoro dipendente, autonomo o cooperativo: questa è la strada da seguire per aumentare le entrate nelle casse dello Stato, tutelare la salute pubblica e combattere efficacemente la piaga della prostituzione da strada. 
Sempre più in mano ad organizzazioni criminali extracomunitarie e dell'Est-Europa ".
Questa la proposta che l'europarlamentare leghista Mara Bizzotto, responsabile federale del dipartimento Europa della Lega Nord, ha presentato ufficialmente alla Commissione UE, attraverso un'interrogazione parlamentare.
"Secondo la Commissione Affari sociali del Parlamento italiano, nel nostro Paese le prostitute sono oggi quasi 70mila e producono un volume d'affari stimabile in decine di miliardi di euro - spiega l'eurodeputata Bizzotto - Tassando la prostituzione, come avviene ad esempio in Germania, Belgio e Olanda, potremmo coprire tranquillamente la cancellazione dell'Imu sulla prima casa, evitare la stangata della Tares o l'aumento dell'Iva o abbassare tutta una serie di altre imposte".
"E' inutile nascondere la testa sotto la sabbia, la prostituzione è purtroppo un fenomeno che esiste da sempre e che sempre esisterà: perché allora non regolamentarla? - si chiede l'on. Bizzotto - In Italia, a 50 anni dalla Legge Merlin che ha disposto la chiusura delle case chiuse, i problemi di ordine pubblico legati allo sfruttamento della prostituzione si sono moltiplicati: le organizzazioni criminali, spesso di origine straniera, continuano a gestire illegalmente il business della prostituzione, mentre chi esercita questa professione volontariamente non paga nessuna tassa e non è soggetto a nessun controllo sanitario".
"In tutta Europa ci sono diversi paesi (Austria, Belgio, Germania, Grecia, Lettonia, Olanda, Regno Unito e Ungheria) che hanno scelto di regolamentare il settore e di tassare le prostitute, trattando il mestiere più antico del mondo come una qualsiasi altra professione - osserva l'on. Bizzotto - E' giunto il momento di sdoganare questo tabù anche nel nostro Paese, abrogando una legge che ormai è del tutto superata e inadeguata rispetto alla realtà di oggigiorno".
"Sono fermamente convinta che bisogna affrontare la questione in sede europea, coinvolgendo tutti gli Stati Membri - conclude Mara Bizzotto - Serve una legislazione comune in grado di regolamentare in maniera uniforme all'interno dell'UE il fenomeno della prostituzione, sia per aumentare le entrate nelle casse dello Stato e degli Enti locali in questo momento di crisi economica, sia per combattere le organizzazioni criminali che gestiscono il racket della prostituzione da strada".

sabato 16 novembre 2013

Scandaloso Nichi Vendola. Telefonata choc con risate per le domande a Riva sui tumori ILVA Taranto

Scambio di battute tra il presidente della Puglia e Girolamo Archinà: "Dica a Riva che il presidente non si è defilato".
Diventa pubblico l'audio della scandalosa telefontata tra Nichi Vendola e Girolamo Archinà, ex responsabile delle relazioni esterne dell'Ilva. "Complimenti, io e il mio capo di gabinetto siamo stati a ridere per un quarto d’ora”, dice il presidente della regione Puglia parlando dello "scatto felino" con cui Archinà rubò il microfono a un giornalista che chiedeva a Emilio Riva spiegazioni sui morti di tumore causati dalle emissioni dell'Ilva. Video che, come riporta il Fatto Quotidiano, risale al 2009, ma viene diffuso quando a Taranto scoppia il caso sulle emissioni di benzo(a)pirene. 
Ma andiamo con ordine. E' il 29 maggio 2010 quando a Taranto viene indetta una mobilitazione sul benzo(a)pirene e centinaia di persone assediano il Municipio.  I manifestanti richiedono uno stop tecnico della cokeria per valutare l'incidenza nel quartiere Tamburi del benzo(a)pirene da essa prodotto. I dati sono impressionanti: il 98% del benzo(a)pirene che si respira nel quartiere Tamburi di Taranto avrebbe come sorgente l'Ilva. L'inchiesta della Procura pone l'attenzione - attraverso le intercettazioni - proprio su questo documento delicato dell'Arpa. Due giorni dopo la diffusione di tale studio accade qualcosa di particolare. Lo spiega l'ex magistrato Ferdinando Imposimato che scrive: "Dalle carte dell'inchiesta risulterebbe che 'l'avvocato Francesco Manna, capo di gabinetto del governatore Vendola, il 6 luglio 2010, e l'assessore Nicola Fratoianni sono stati incaricati di frantumare il direttore generale dell'Arpa Puglia, Giorgio Assennato, che aveva osato diffondere dati allarmanti sul superamento delle soglie di inquinamento ambientale dello stabilimento e sugli effetti catastrofici sulla popolazione'. Il governatore Vendola, indagato dalla Procura per disastro ambientale, nega di avere interferito indebitamente nella vicenda". 
La telefonata tra Vendola e Archinà fa seguito a tutto ciò. Ecco l'audio, riportato dal Fatto Quotidiano.it, e la trascrizione della chiamata.
Ne riportiamo il contenuto: 
Archinà - Pronto?
Vendola - Sono Nichi Vendola.A - Oh come va presidente...V - Sono per dire una cosa seria anche se mi… sono molto colpito da una scena che ho appena visto ora i miei amici mi hanno fatto vedere a Roma una conferenza stampa e un’immagine, uno splendido scatto felino. [Risata]A - [Risata]V - Non potevo riprendermi. [Risata]. Non potevo riprendermi, ho visto una scena fantastica Dica a A - [Risata]V - Col mio capo di gabinetto siamo rimasti molto colpiti siccome ho capito quel è la situazione volevo dire che mettiamo subito in agenda un incontro con l’ingegnere.A - Mh mh.V - Archinà no! state tranquilli, non è che mi sono scordato.A - No assolutamente.V - Come fare ho paura che...A - No ero sicuro.V - Ho paura che metto la faccia mia e si possono accendere ancora di più i fuochi.A - No ero siocuro, soltanto che sta degenerando veramente sta degenerando…V - I vostri alleati principali in questo momento, lo voglio dire, sono quelli della Fiom.A - Lo so.V - Quelli più preoccupati, mi chiamano 25 volte al giorno.A - E lo so e lo so lo lo so purtroppo i miei timori del recente passato si stanno dimostrando sempre di più sempre di più non solo l’Ilva ma anche altre persone sono nell’occhio del ciclone, ma tutto poggiato su una scivolata del nostro stimato amico direttore [Assennato, ndr]V - Vabbè vabbè noi dobbiamo fare ognuno la sua parte e però dobbiamo sapere che a prescindere da tutti i procedimenti le cose le iniziative...A - Se seV - L’Ilva è una realtà produttiva.A - E lo so infatti.V - Cui non possiamo rinunciare e quindi dobbiamo vederci dobbiamo...A - Certo certo...V - Rifare garanzie, volevo dirglielo perché poteva chiamare Riva e dirgli che il presidente non si è defilato.A - Vabbè no ma ne eravamo assolutamente certi.
Nichi alza la voce - Ma Vendola non ci sta e si difende.. "Provo grande indignazione e grande rabbia per un tentativo di linciaggio e sciacallaggio puro - ha tuonato il governatore, ospite di repubblica.it -. Chiunque abbia ascoltato si rende conto che io non rido dei tumori, il cancro l'ho avuto in famiglia e so cos'è il dolore". Nichi sostiene di aver riso vedendo Archinà afferrare il microfono del cronista, insomma. E per questo ha dato mandato, si legge in una nota firmata Sel, ai suoi avvocati di sporgere denuncia contro i responsabili dell'articolo comparso su ilfattoquotidiano.it.
Quando erano gli altri a ridere - Eppure dimostrava ben altro rigore morale, Vendola, quando a ridere delle tragedie altrui erano "gli amici dei nemici". Nel febbraio 2010, nell'ambito dell'inchiesta su presunti casi di corruzione negli appalti per il G8 (indagato l'allora capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso), finirono sui giornali le intercettazioni dell'imprenditore napoletano Francesco Piscicelli "se la rideva dentro al letto" per il terremoto de L'Aquila. Ecco, in questa occasione il governatore della Puglia si diceva pronto a trarre conclusioni tranchant che non lasciavano spazio a interpretazioni. "Ci sono responsabilità politiche che prescindono dalle responsabilità penali - tuonava Nichi -. Credo che al di là della condizione personale di Bertolaso in questa inchiesta, la Protezione civile abbia subito un'onta che merita conseguenze politiche serie". Un duro, insomma, con gli scivoloni altrui.
da Libero Quotidiano

venerdì 15 novembre 2013

"Napolitano massone. E la Cia...". Tutti i panni sporchi della sinistra

Dopo una lunga attesa esce "I panni sporchi della sinistra", il libro di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara (edito da Chiarelettere) che fa tremare la sinistra.
Dalle amicizie pericolose di Bersani a quelle di D'Alema, dalle innovazioni ambigue di Renzi alle ombre dell'Ilva su Vendola. Fino al "nuovo compromesso storico" di Enrico Letta e ai segreti di Giorgio Napolitano. Non risparmia nessuno "I panni sporchi della sinistra", il libro di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara (edito da Chiarelettere") che mette a nudo le magagne del centrosinistra. Un lavoro importante e "lungo due anni", come ha spiegato Santachiara intervistato da Affaritaliani.it, nel quale i due autori raccolgono e analizzano una serie di inchieste giudiziarie che riguardano, a vario titolo, il mondo della sinistra. Dalla galassia Bersani di Penati, Pronzato e Veronesi alla vicenda di Flavio Fasano, referente di D'Alema invischiato in una storia di mafia. Dallo scandalo Ilva al caso Unipol, passando per i trasferimenti di due magistrate, Clementina Forleo e Desirée Digeronimo, che avevano indagato sulle responsabilità di importanti esponenti politici di sinistra. Pinotti e Santachiara ricostruiscono con dovizia di particolari tutta una serie di vicende, grandi e piccole, note e sconosciute, che offrono un ritratto impietoso di una sinistra che ha subìto "una mutazione genetica". Il libro si apre con un esplosivo capitolo su Giorgio Napolitano, del quale vengono indicati i rapporti (o presunti tali) con Berlusconi, la massoneria, la Cia e i poteri atlantici. 
di Lorenzo Lamperti (Affaritaliani)

giovedì 14 novembre 2013

Kyenge: ecco le spese pazze per l'integrazione

Quarantamila euro stanziati dal governo per un convegno sui Rom, poi ci sono quelli sui trans, sui rifugiati e i migranti.
Quando si tratta di trovare soldi per gli esodati, di abolire le tasse sulle casa, di abbassare il cuneo fiscale la risposta che ci vengono date sono: non ce lo possiamo permettere, siamo in tempo di crisi, i soldi servono ad altro, bisogna tirare la cinghia. Peccato che però quando si tratta di soddisfare i capricci della Casta i soldi si trovano. Si trovano per la nuova poltrona di Enrico Letta che ci è costata 24mila euro, per il consulente artistico della presidente della Camera Laura Boldrini, per gli spot del presidente di Palazzo Madama Grasso e pure per molti, troppi convegni, che non portano alcuna utilità ai cittadini se non offrire a spese nostre una ribalta a personaggi che nessuno conosce e a finanziare associazioni, onlus, organizzazioni "amiche". Oggi il Giornale racconta delle spese pazze di dipartimenti come quello delle pari opportunità e dal suo ufficio antidiscriminazioni. Proprio questo ufficio ha recentemente stipulato un contratto che costa ai contribuenti qualcosa come 40mila euro per organizzare il meeting internazionale Chaorom, in collaborazione con il Consiglio d'Europa, dedicato all'inclusione sociale del popolo Rom. Ovviamente il meeting è stato aperto dal ministro dell'Integrazione Cecile Kyenge.
Altri 9.900 euro, rivela Antonio Signorini, se li è messi in tasca l'associazione "Romà Onlus" che è stata incaricata di realizzare il progetto "Dik I Na Bistar", ovvero di mandare 40 giovani rom e non rom a rappresentare l'Italia a una conferenza internazionale sul tema che si è tenuto in Polonia. Quasi ottomila euro, per la precisione 7.920 euro, è costato il workshop sulle politiche di accoglienza dei migranti. E ancora: 17.820 euro sono usciti dalle casse dello Stato per il laboratorio di formazione antirazzista e 9.852 per il laboratorio di disegno e scrittura "La mia idea di razzismo". Poi c'è il capitolo "convegni sugli omossessuali": più di mille e cinquecento euro sono stati spesi per tre coffè break  sulla valutazione delle domande di asilo presentate da gay, lesbiche e trans, mille euro per tracciare una "strategia nazionale Lgbt" e 5.940 euro per la realizzazione di due seminari al festival del cinema transessuale. Poi dicono che non ci sono soldi...
da Libero Quotidiano

Il delirio del ministro Kyenge: «Dobbiamo fare entrare tutti. Libero accesso a chiunque si presenti a bussare alle porte dell’Italia». La Lega: così lo Stato si arrende

Rispondendo a un’interrogazione presentata dal deputato leghista, Massimiliano Fedriga, il ministro per l’Integrazione, Cècile Kyenge, ha svelato i suoi reali piani per l’immigrazione: spalancare definitivamente le frontiere della Penisola e dare libero accesso a chiunque si presenti a bussare alle porte dell’Italia. La reazione di Fedriga, come prevedibile e legittimo, è stata risoluta: «Fosse vero, sarebbe la resa definitiva dello Stato alla delinquenza». 
Le dichiarazioni della Kyenge, come detto, hanno preso spunto dalla richiesta di chiarimento di Fedriga, posta nel Question Time alla Camera, in merito ai disordini e agli episodi di violenza accaduti nel centro di identificazione ed espulsione di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia.
Fedriga aveva sottolineato che «le persone nel Cie di Gradisca per il 98% uscivano da circuiti carcerari e avevano commesso reati quali droga, furto e violenza carnale». Da qui il monito: «Questa è la resa dello Stato rispetto alla delinquenza. Di fatto lo Stato si arrende di fronte a chi ha devastato il centro, persone in attesa di espulsione che noi trasferiamo in altri centri malgrado abbiano commesso quegli atti gravissimi». Per tutta risposta, il ministro italo-congolese ha replicato a Fedriga che per prevenire l’irregolarità bisogna «prevedere canali di accesso regolare per i migranti, che con l’attuale normativa sono di fatto inesistenti. In tal modo si ridurrebbe sensibilmente l’irregolarità sul territorio e quindi la necessità delle strutture di trattenimento». La soluzione al fenomeno dell’immigrazione clandestina per il ministro è, dunque, l’apertura indiscriminata delle frontiere («canali di accesso regolari», ha detto) e la chiusura delle strutture dove oggi è possibile “parcheggiare” chi è entrato irregolarmente nel Paese prima dell’espulsione («si ridurrebbe sensibilmente l’irregolarità sul territorio e quindi la necessità delle strutture di trattenimento». Un delirio dopo l’altro. La reazione di Fedriga non si è fatta attendere: «Le parole del ministro Kyenge - ha replicato il parlamentare del Carroccio - che ha sostenuto che per eliminare l’irregolarità dei clandestini bisogna aprire le porte e far entrare chiunque, sono gravissime». «La disoccupazione giovanile - ha osservato Fedriga - ha raggiunto il 40% e la ricetta del ministro è quella di facilitare l’arrivo di nuova forza lavoro che qui non troverebbe alcun futuro, favorendo in questo modo solamente chi fa tratta di carne umana. Siamo di fronte alla resa dello Stato di fronte alla delinquenza». Il deputato del Carroccio ha dunque anticipato che domenica 17,  alle 11 del mattino, la Lega radunerà i propri sostenitori ma anche la gente comune per una manifestazione proprio di fronte al Cie di Gradisca». «Per dire no all’immigrazione clandestina e sì alla legalità», ha motivato Fedriga.
A preoccupare della parole del ministro Kyenge anche un’altra “minaccia”: «Da qui al 31 dicembre - ha detto - dovremo recepire tutte le norme sull’asilo, sui profughi e sui richiedenti asilo. Questo è un dovere che abbiamo posto come priorità nell’agenda di Governo. Lo porteremo a compimento e ci porterà nel 2014 verso un testo unico per rifugiati e richiedenti asilo. Chi entra dal Sud e da Lampedusa entra di fatto in Europa, bisogna rendersi conto di questo». Vero, bisogna rendersi conto che se questo governo non va a casa all’istante per il Nord è finita.
Andrea Ballarin