giovedì 28 novembre 2013

La sacrosanta serrata degli imprenditori

In questo momento quasi seimila tra imprese, artigiani, commercianti e partite Iva incrociano le braccia, smettendo di produrre ricchezza e posti di lavoro. Il messaggio è diretto a Roma: o si cambia o vi mostriamo seriamente cos'è l'Italia senza noi. Niente
Saracinesche abbassate. Chiusi. Partite Iva, commercianti, piccole imprese e artigiani. Cinquemila e seicento uffici serrati, angoli produttivi blindati, morti per quattro ore. Lampadine spente, dipendenti e collaboratori a casa, stampanti a riposo. I computer che non si attivano, gli ordini che non partono, le vendite immobilizzate. Niente “fax, mail, telefoni”. Il mondo produttivo questa mattina è paralizzato per quattro lunghe ore. Possono sembrare poche. Signori, sono tantissime nella lingua di impresa. Sono l’ammasso di minuti che separa la ricchezza dal farsi reale, tangibile; le stesse che si traducono in perdita per il Paese e inefficienza. Nulla di più lontano da un imprenditore, la serrata. Per questo simbolo dirompente, urlo sordo impossibile da non ascoltare: «Basta!». Perché “Lavorare per noi stessi è un onore ma non basta per sopravvivere”, recita la locandina firmata da Imprese che resistono, nata proprio per tentare di arginare le prepotenze di uno Stato capace di esigere senza offrire nulla, se non ostacoli.
Quel «basta» Antonella Lattuada, uno dei volti dell’associazione, lo ribadisce mentre dice tutto con poche sillabe: «Abbiamo il supporto di sei associazioni e l’endorsement del Tea Party Italia ed è solo l’inizio». Sono stanchi, gli imprenditori, «stremati» e si riparte «eliminando l’Irap, subito e diminuendo la pressione fiscale». Perché mettere in «ginocchio noi significa mettere in ginocchio il Paese. I soldi non è vero che non ci sono, vengono sprecati. Allora ci fermiamo, perché oggi lavorare non produce profitto».
Lavorare non produce profitto. La pelle s’accappona. Lattuada non smette: «Lavorare in Italia non serve più a niente». E lo dice che si inizia con queste quattro ore, che si trasformeranno in ventiquattro e poi, iniquità estrema vuole, in una settimana di braccia incrociate. Quel che pensavamo di non vedere mai. E siamo con loro, per quanto vale. Siamo con chi ha tenuto in piedi una nazione, l’ha sfamata e ha accettato capo chino una rapina fiscale che ha dell’inverosimile e oggi si violenta chiudendo la porta. Perché per ognuna di quelle imprese abbassare la saracinesca significa spegnersi un po’ dentro, accoltellarsi per evitare di morire e siamo al punto del coraggio arrabbiato. «Un po’ di sana autocritica non fa male: per anni abbiamo pensato solo a lavorare, dodici ore al giorno, delegando la gestione del prodotto delle nostre fatiche (le tasse, è bene si inizi a chiamare le cose con il loro nome) a chi lo bruciava in nepotismi, malaffare, inefficienza. Adesso basta». E non conta se mentre le parli quest’imprenditrice è al volante, se l’hanno tamponata pochi minuti che la chiamassi, infila un argomento dopo l’altro, come chi sa che il domani deve afferrarlo da sé. Si arriva alle banche commerciali, «nate per sostenere lo sviluppo», ormai lontane dal loro primo scopo. «I soldi dei correntisti vengono spesi per comprare titoli marci» e l’accesso al credito viene negato.
di Federica Dato (L'Intraprendente)

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